"Ho deciso/di perdermi nel mondo/anche se sprofondo
lascio che le cose/mi portino altrove"
Altrove di Morgan in Canzoni dell’appartamento (2003)
Il rapporto che il cinema intesse con l’ambiente (rappresentato o narrato) è, non solo di recente, al centro di numerosi e interessanti studi (anche e soprattutto accademici). Può diventare sicuramente questa una delle molteplici e sfaccettate chiavi di lettura di Io vivo altrove! primo film diretto (e coprodotto) dall’attore udinese Giuseppe Battiston. In tale ottica l’opera può diventare elemento di caratterizzazione di un certo filone cinematografico che vede come nodo centrale l’essere umano e il suo rapportarsi o il rappresentarsi attraverso l’ambiente che vive o lo circonda, soprattutto in ambito extraurbano e in termini di sostenibilità ambientale: si pensi al film Le meraviglie di Alice Rohrwacher o a tutto il lavoro svolto dalle film commissions sparse in tutta Italia (e non solo).
In tal senso il film di Battiston è un prodotto quasi del tutto inedito nel panorama cinematografico italiano, inserendosi in una sorta di filone al limite della commedia agrodolce in salsa ambientalista (con pochissimi esempi additabili in tale direzione) e che fa della sua derivazione letteraria uno dei suoi punti di forza e significazione. Il soggetto infatti è adattato liberamente dall’incompleto flaubertiano Bouvard e Pécuchet, in cui due amici si avventurano in stravaganti e molteplici disavventure non solo legate all’agricoltura, ma anche alla politica o a diverse altre discipline come la psicologia o la letteratura.
Quello che traspare dalla sceneggiatura è invece oltre al grande tema ambientale, anche e soprattutto quello umano: l’altrove di Battiston è un (non) luogo non solo fisico (in questo caso è interessante notare che il paese immaginario in cui si trasferisce si chiama Valvana e sostituendo la seconda “v” con una “s” otterremmo un chiaro riferimento salutista), ma soprattutto spirituale, con diversi ambiti di rappresentazione e concettualizzazione. Si pensi ad es. a una delle tante derivazioni della parola “altrove”, che porta a identificare qualcosa di “poco noto” o “distratto”: questa è la spiegazione che dà Battiston al suo amico che gli chiede perché tutti in paese lo etichettano con l’epiteto di “mona” (che può avere come noto diversi e più pittoreschi significati).
Il rapporto tra i due protagonisti è senz’altro un’altra delle figurazioni dell’altrove: entrambi sembrano quasi continuamente avvinghiati dal e nel loro rapporto, si danno continuamente (dall’inizio alla fine) del “lei” e instaurano un legame che slegato dalle componenti omoerotiche svincola più verso le grandi coppie della letteratura e del cinema (si pensi alle inquadrature che richiamano Don Chisciotte e il suo scudiero quando i due protagonisti “cavalcano” il loro nuovo destriero, un trattore verde in male arnese).
Il prodotto finale, soprattutto nella scrittura e messa in scena, va verso la boutade, ma sempre con uno sguardo (seppure minimo) all’altrove sociale, verso quell’universo degli “ultimi”, nelle corde di molti personaggi interpretati dal regista e dai suoi comprimari (il coprotagonista, Rolando Ravello duetta in maniera esemplare con Battiston, insieme ai bei volti di Diane Fleri e Teco Celio) e narrati dal suo collaboratore alla sceneggiatura, Marco Pettenello (si pensi in tal senso al lavoro svolto con Carlo Mazzacurati, Andrea Segre e Gianni Di Gregorio). Il mondo in cui entrano i due protagonisti seppure avente le fattezze di un Paradiso diventa un vero e proprio Inferno (chiaro il riferimento alle fiamme nell’incendio finale) trasformandoli in due Faust(i) di italiana fattura.
Ma forse più che Faust si direbbero due cavalieri (nel senso calviniano del termine), dove i protagonisti “soffrono di essere come sono”. Soffrono per le loro vite monotone, che l’altrove eremo di campagna e autosufficiente dovrebbe placare, ma passano sempre attraverso il filtro della realtà, che appare (nonostante tutto) monotona e grigia, proprio come il vetro sporco che compare nella prima (lunga) inquadratura che apre il film, denunciando subito (e facendolo per tutto il lungometraggio) il critico legame che c’è tra “vedere” e “filtrare” lo sguardo (si pensi a tutte le riflessioni innescate dalle continue foto che scatta uno dei protagonisti, scattate unicamente con una macchina fotografica con pellicola – quindi il digitale? - come se fossero capaci di trattenere momenti di pura unicità e universalità).
In aggiunta, infine, il lavoro svolto sul suono: il mondo in cui vive Battiston è un mondo fatto di (tanti) rumori e (pochi) suoni, tutti di chiara derivazione artificiale/naturale. Questo binomio è enfatizzato dalla presenza di poche musiche extradiegetiche, che fanno parte della tradizione classica (Bach, Passacaglia) o folcloristica della tradizione contadina del nord-est d’Italia.
Un film, Io vivo altrove!, sfortunatamente distribuito poco ma che fa del suo essere schietto e puro, senza sotterfugi, una delle sue componenti di forza e con tante riflessioni sul tavolo, che lasciano trasparire una genuinità che aiuterebbe molto del nostro cotanto (e fin troppo pensato) cinema italiano.
Piccola stupenda nota in calce: le fotografie (in bianco e nero) che accompagnano i titoli di coda sono di Emilia Mazzacurati, figlia del compianto regista.