Verboso, ipercinetico, violento: il cinema di Gaspar Noé non può lasciare lo spettatore indifferente. Nel 2002 Irréversible suscitò un certo scandalo per l’estrema violenza di alcune scene e per il piano-sequenza di oltre 9 minuti in cui Monica Bellucci viene violentata.
Il rimontaggio del film in ordine cronologico presentato alla 76a Mostra del Cinema di Venezia (ricordiamo che l’originale era strutturato con una progressione anti-cronologica, à la Memento di Christopher Nolan) ne costituisce una vera e propria rielaborazione. Chi assiste alla proiezione non è più guidato dalla curiosità di scoprire quale sia la causa di un determinato effetto: si ritrova invece proiettato in un crescendo impressionante di violenza, in una spirale di istintività. Se l’annebbiamento della razionalità di Marcus (Vincent Cassel) in seguito allo stupro della compagna Alex (Monica Bellucci) innesca una reazione a catena di eventi che condurranno lui e l’amico Pierre (Albert Dupontel) in una discesa infernale a contatto con la propria e altrui parte più animalesca, Noè imposta una narrazione che a livello stilistico si raccorda perfettamente con la storia.
Nell’originale del 2002 i volteggi della macchina da presa richiamavano concettualmente la spirale temporale in riavvolgimento di cui sono vittime i personaggi e lo spettatore, allo scopo di mostrare che il destino è già scritto e il futuro è già accaduto – lo afferma Alex raccontando il libro che sta leggendo – o meglio che “il tempo rivela tutto”, come recita la didascalia del film. In questa nuova versione, denominata sapientemente Inversion intégrale, le acrobazie registiche risultano assai più legate al tema della violenza, rappresentando appunto la spirale discendente in cui protagonisti e spettatori precipitano senza sosta lungo gli 86 minuti di film. Ora il tempo, anziché rivelare, “distrugge tutto”: è quanto sentenzia uno dei personaggi.
Come in Madre! di Darren Aronofsky, la discesa fisica del protagonista (qui lungo i piani del locale gay, là nella casa) corrisponde alla discesa mentale in un girone infernale, dove esplode la violenza. Lo stile scelto da Noè, ovvero la successione di tredici sequenze – la maggior parte delle quali girate in piano-sequenza – intervallate da raccordi spiraliformi che si congiungono lungo piani neri (come in Nodo alla gola di Alfred Hitchcock), ha dunque l’intento di provocare nello spettatore un senso di caduta, di nauseante progressione verso un destino inevitabile, una sorta di mal di mare dovuto all’alternanza di momenti di stabilità dell’immagine ad altri di profondo scompenso visivo. Proprio come se il regista fosse il nostro traghettatore per un inferno in cui non soltanto la violenza deflagra senza alcun freno, ma dove la perdita di controllo riguarda tanto gli accadimenti esterni quanto le proprie azioni. Alla fine del film Pierre e Marcus sembrano degli animali: il loro istinto non è più mediato delle regole della civiltà e lascia emergere la vera natura bestiale dell’uomo. Oltretutto, come a stendere una patina di nichilismo e pessimismo estremo, la loro violenza risulta vana perché, a causa della direzione errata verso cui viene indirizzata, il crimine resta, di fatto, impunito.
A distanza di diciassette anni, con l’obiettivo-pretesto di dissolvere eventuali enigmi del film originario, Noé approfondisce la sua riflessione sulla violenza insita nell’uomo e coordina tematiche e stile in una spirale di puro sbandamento spettatoriale, realizzando un nuovo tassello del suo “cinema sensoriale” che quest’anno aveva già arricchito con lo straordinario Climax.