Partiamo da lontano: “chi non muore del suo amore, non può viverne”. La mistica araba, nella lode alla morte del sentimento che ritorna anche nelle forme del lirismo provenzale, si adatta perfettamente agli oggetti del perduto amore che Jacques Demy ha raccontato in una filmografia coerente e lucida nella sua continuità tematico-stilistica.
L’inscindibile associazione letteraria tra cuori e menti è stata, inoltre, la più florida delle invenzioni cinefile di Demy, la cui “etica dell’intrattenimento” viene di volta in volta camuffata nei toni pastellati e nelle acrobazie visive delle sue correspondances d’imaginaires, quasi fossero l’armonioso lascito di Max Ophüls.
Jacques Demy, le Rose et le Noir, docufilm scritto da Frédéric Bonnaud, direttore della Cinémathèque française e realizzato da Florence Platarets, è il racconto delle fughe e dei ricongiungimenti del cuore, spogliato di ogni velleità romanzesca e messo in scena come se le inquadrature – un insieme di movimento, azzardo e colore – fossero quelle tipiche di uno dei tredici film realizzati dal più artistico dei pensatori della nouvelle vague, come sostenne Jean-Luc Godard.
Uomo dalla sensibilità raffinata e pervaso da un’umanità persuasiva, di quelle in grado di contagiare chiunque si relazionasse a lui, Jacques Demy rivive attraverso frammenti di memoria, secondo il meccanismo che lui stesso racconta nel biopic: definitosi duttile e cangiante mostro marino, è stato in grado di sincronizzare il sentimento e il pensiero per mezzo di dettagli e particolari vividi, facendo emergere, non solamente nelle opere più fiabesche come La favolosa storia di Pelle d'Asino (Peau d'âne) o Il Pifferaio di Hamelin (The Pied Piper), un realismo fantastico che significa adattamento alla realtà, più che escapismo immaginativo.
Attraverso i filmati d’archivio messi a disposizione dai figli Rosalie Varda e Mathieu Demy, le immagini dei suoi lavori e le interviste, il documentario illumina la filmografia minore del regista, oltre che i capolavori conclamati come Les Parapluies de Cherbourg o Josephine, penetrando con lirismo e vigore il campo di forze in cui amanti perduti e notti fatali, doppie identità e donne in attesa, si rincorrono senza sosta.
Da Lola, riconducibile allo stilema della nouvelle vague, a Trois Places pour le 26, in ogni film realizzato, pensato e perfino dipinto – come era solito fare in età giovanile colorando i fotogrammi della pellicola – si ha una precisa dichiarazione di poetica che impedisce al cineasta di adattarsi alle tendenze ideologiche e stilistiche dominanti; in tal modo, manifesta una coriacea appartenenza a un mondo che è stato solo il suo, indipendentemente dai successi commerciali o dal consenso del pubblico.
Il realismo en chanté dell’autore meno auteur del movimento nato alla fine degli anni Cinquanta, diventa cifra stilistica che raffigura la percezione e la persistenza del desiderio en plein air, per le vie di Cherbourg o lungo il porto di Nantes, come in Lola o in Une Chambre en ville, dove i portuali scioperanti riconducono l’azione politica della working class all’interno della dimensione corale e sentimentale del cineasta.
In Jacques Demy, le Rose et le Noir si agita un vortice poliforme che riesce a saldare l’esperienza biografica del regista alla dimensione onirica dei suoi film che, nel tripudio estetico, musicale e coloristico, nascondono il fatalismo dell’amour fou, gli ingranaggi inceppati dell’esistenza, l’indissolubile presenza di un manque che è espressione di pessimismo illuminato e dolci illusioni.