Il piacere del suono che si propaga e diluisce nell’estasi dei corpi, avvinghiati l’uno all’altro, di Harvey Keitel e Holly Hunter, impellenti, il sangue ribollente, le vene dilatatissime anche al leggero, minimo sfiorarsi. E suonare (e sentir suonare) è come intonare un preludio, mantenersi accesi e vividi nel desiderio, facendolo poi esplodere in un secondo atto dal respiro epico e romantico. C’è infatti una prima parte, in Lezioni di piano, sommessa, cupa, in cui possiamo soltanto arrovellarci tra quei contatti stentati, la freddezza di lei che è piuttosto paura, e poi uno stacco, un cambiamento di tono immediato, quasi presagito: dal momento in cui Ada e George fanno l’amore per la prima volta gli avvenimenti si susseguiranno in crescendo fino alla fine, passando per quel memorabile campo controcampo nella foresta, dei volti di Ada e il marito\Sam Neil, che in quella frazione di secondo confessano le proprie “colpe” senza proferire parola.

Certo Ada è muta, non parlerebbe in un nessun modo, ma la sua voce è martellante, presente nell’immaginario dello spettatore che ne avverte tutta l’urgenza, il desiderio: voce del suo pensiero che si muove libera sulla superficie dello schermo, ciò che Michael Chion ha definito “presenza acusmatica” e che ritroviamo in numerosi capolavori della storia del cinema (Psycho, Sunset Boulevard). L’acusma, stando alle parole dello studioso, è “un elemento di squilibrio e tensione, un invito a venire a vedere ma forse anche un invito a perdersi”. La sentiamo chiaramente all’inizio e alla fine: ci dice della sua testardaggine, allude ai rapporti con il padre (con le figure maschili, volendo ampliarne il raggio d’analisi) e quindi con l’Altro-maschile che la pervade e invade dall’inizio alla fine, prefigurandoci anche la sua morte ideale:

“Che morte! Che occasione!”

La voce di Ada è quindi un invito a vedere e un invito a perdersi nel marasma neozelandese che è pur sempre un’estensione del proprio patrimonio intimo. Estensione e amplificazione del turbinio di sensazioni che delinea il conturbante di Lezioni di piano e che riporta alla cruda e reale entità del sublime romantico, anche in merito alla dissonanza tra istinto da un lato e prescrizioni sociali dall’altro: “Pensavo che questo paesaggio selvaggio fosse adeguato alla mia storia perché il romanticismo è stato mal compreso dalla nostra epoca, in particolare nel cinema. È diventato qualcosa di grazioso e amabile. Si dimentica la sua violenza, il suo lato oscuro”, ha dichiarato più volte la regista. Ed è un contrappunto irreale quello che la Campion crea tra questo scenario selvaggio e a tratti brutale e il pianoforte, immerso – e sommerso – in un’atmosfera favolistica e immaginifica visivamente vicina agli ambienti di Henri Rousseau, pittore surrealista che la regista ama moltissimo.

Emblematica l’immagine del pianoforte abbandonato sulla spiaggia all’arrivo di Ada e la figlia da loro osservato da lontano. In questo senso, c’è una padronanza della forma in Jane Campion che ne ha portato a classificare - erroneamente - lo stile come “classico”, ignorando quindi la mistione di generi e forme che deflagrano in Lezioni di piano: il registro erotico e horror che trapassano il respiro epico della storia incuneandosi nei dettagli di certe sequenze, o inquadrature, come quella in cui Baines accarezza la pelle di Ada attraverso il buco della calza, o nella prosecuzione dal piano alle epidermidi del piacere.