Come sostiene Edouard Waintrop, ricordare Jean Gabin escludendo capolavori come Grisbì, per citarne soltanto uno, equivale a fare scelte laceranti, considerandone l’elasticità e l’eclettismo. Figlio di artisti di varietà, lasciò agli inizi degli anni Trenta il palcoscenico del music-hall e da Dall'alto in basso di Georg W. Pabst, dove la sua presenza è tanto “marginale” quanto, nello stesso tempo, decisiva ed efficace ai fini della vicenda, comincia la sua consacrazione. Grazie poi a Duvivier e a La bandieraLa bella brigata e Il bandito della Casbah, il cui successo fu tale da spingere Hollywood meno di un anno dopo ad affidarne un remake a John Cromwell (Un’americana nella Casbah), Gabin divenne una star. Passò da un capolavoro all’altro, interpretando alcuni dei migliori film di Renoir, Carné e Grémillon, prima dello scoppio della guerra. Le mura di Malapaga di René Clément e La vergine scaltra di Marcel Carné sono tra i film con cui la Cineteca di Bologna ha scelto di rendere omaggio all’attore francese. Rispettivamente del ’48 e del ’49, si tratta di due storie diverse, con un protagonismo maschile grossomodo agli antipodi, anche se Gabin nei suoi personaggi risulta quasi sempre sfuggente, enigmatico.

Le mura di Malapaga parla di Pierre, un francese in fuga che, dopo essere sbarcato da un cargo a Genova con un violento mal di denti, incontra una ragazzina, Cecchina, e la madre di lei, Marta, una cameriera che gli farà dimenticare nel breve giro di qualche giornata la sua condizione di fuggiasco e il crimine di cui si è macchiato. D’altra parte c’è La vergine scaltra , racconto delicato ma dalla scrittura pungente ed evocativa di una strambissima sorta di ménage a quàtre, come si verrà a scoprire nel corso del film: un borghese di provincia, Henri Chatelard/Gabin accompagna la sua donna, Odile, al funerale del padre di lei, in una piccola città portuale della Normandia. Non si amano più. Vivono una storia d’amore di convenienza. Preferendo quindi evitare la famiglia acquisita, Chatelard si dirige verso il caffé del porto. Apprende che un battello da pesca è in vendita, lo compra e per la strada incrocia una ragazza dallo sguardo fiero. Si chiama Marie, la sorella di Odile, mai vista prima, fidanzata di Marcel.

“Che dire di Carné, questo piccolo uomo stizzito e nervoso quando è impegnato nelle riprese di un film e sereno come un collegiale quando si riposa? Che ha realizzato i più grandi film francesi? Che girare con lui era un piacere unico? (...). Ama il lavoro ben fatto, lo rifinisce, è esigente, ma i suoi attori sono sacri, li lascia andare, li rispetta e rispetta l'autore come un giovane artigiano, ha bisogno di un genio per fare un film semplice, il prete non gli basta per dire la sua messa, vuole Dio.” (Pierre Brasseur, Ma vie en vrac, Calmann-Lévy, Paris 1972)

E in effetti, nonostante La vergine scaltra, in cui sembra che i dialoghi rechino l’impronta del sodale di Carné, Jacques Prevert, all’epoca però convalescente, segni una svolta nella carriera stilistica di Carné, l’impressione che si ha guardandolo è che filmi i suoi attori lasciandoli andare, lasciando che la vita svolga il suo corso, dispiegandosi senza una fine definitiva: interminabili sequenze di conversazioni in bistrot, promenades e carrellate su Henri e Marie che camminano, ondivaghi in quella piccola città della Normandia. C’è del realismo in entrambi i film, o anche delle tracce di realismo poetico, se pensiamo al film di Clément, la cui storia è incentrata su un personaggio che rimanda all’idea di eroe tragico, il quale è continuamente destinato a essere sconfitto dal fato. In Le mura di Malapaga emerge inoltre volontà di portare sullo schermo la dura vita del proletariato, considerando il modo in cui viene rappresentata la quotidianità della cameriera Marta e di sua figlia.