A volte nell’arte vale il detto “buona la prima”. Sembrerebbe controintuitivo, per esempio, che un film uscito all’infanzia del cinema sonoro possa anche rappresentarne un apice. Eppure è impossibile non pensare proprio questo davanti all’uso del suono fuori campo in M – il mostro di Düsseldorf (1931). La radicalità della soluzione di Lang, la novità di una tecnica non più temuta ma abbracciata euforicamente, cementa quella scoperta iniziale come uno standard, un modello di nuova classicità.
Qualcosa di molto simile può essere detto sulla versione di Rouben Mamoulian di Il dottor Jekyll (1931 - di nuovo), in particolare sul suo uso rivoluzionario della soggettiva. Rivisto oggi, a quasi un secolo di distanza e nonostante le decine di illustri esempi successivi, quello di Mamoulian ci sembra ancora il saggio più autorevole su questo espediente visivo, epistemologicamente cruciale nel suo farsi crasi e metafora della stessa esperienza registico/spettatoriale.
Non è una mera questione di virtuosismo: in Jekyll l’uso della soggettiva è la brillante risoluzione di un problema tematico, quello stevensoniano del Doppio e della coabitazione di ragione e istinto nel cuore umano. La genialità con cui Mamoulian applica la tecnica cinematografica a un tema di provenienza letteraria, conservandone su schermo tutta la profondità ed esplorandone nuovi risvolti, rappresenta un’operazione di adattamento raramente eguagliata nella storia del cinema.
Sedici anni prima di Dark Passage (1947) la lunga soggettiva culminante nel riflesso di Jekyll allo specchio, e ancora lo scambio di soggettive fra lui e la platea che assiste alla sua lezione universitaria, costruiscono il Doppio in un rapporto che co-implica il protagonista e il suo pubblico; Ventinove anni prima di Psycho e L'occhio che uccide (1960) quest’implicazione apre uno squarcio infernale sulle nostre pulsioni umane e spettatoriali, ci consegna al nostro desiderare messo a nudo in tutta la sua ripugnanza e ci sfida a sostenere il nostro stesso sguardo.
L’effetto complessivo è quello di una scissione morale totale, di un continuo rilancio dei nostri meccanismi pulsionali ed auto-repressivi/giudicanti. Così come Hitchcock ci farà diabolicamente desiderare (e pentire di desiderare) che l’auto di Marion Crane affondi nell’acquitrino, Mamoulian prende alla lettera la compresenza di uomo e bestia in Jekyll e in noi che assistiamo alla storia.
Se le sequenze con Hyde che tormenta la prostituta interpretata da Miriam Hopkins sono degne di un torture porn ante-litteram, a renderle autenticamente strazianti è il loro rapporto con quella precedente in cui lei corteggia Jekyll, dove Mamoulian gioca audacemente (eccitandoci) a suggerire che il Mostro è già lì, assorbito e ricompreso dietro l’impeccabile facciata illuminista. Straordinaria in questo senso la caratterizzazione che Fredric March dà del personaggio pre-trasformazione: non un irreprensibile eroe ma una creatura davvero duplice, capace tanto di slanci umanitari quanto di ribellioni e malizie che ne denunciano il lato nascosto (to hide).
È questa forma sofisticata di moralismo dell’immagine, questo suo essere insieme “pozione e antidoto”, a fare del film un’opera così lucida, capace - di nuovo in continuità con M - di complicare e denunciare gli impulsi socio-politici che la attraversano: dietro lo spirito caritatevole e anti-classista di Jekyll, che manca una cena di gala per curare una signora dei quartieri bassi, si nasconde forse il disprezzo predatorio di tanta aristocrazia? E che dire del ruolo della donna, di volta in volta schizofrenicamente oggetto sessuale e poi invece adorabile sposina o vittima degna di empatia?
Proprio sulla sessualizzazione della performance femminile si era incentrato Applause (1929), primo lungometraggio di Mamoulian, intercettando le preoccupazioni dell’opinione pubblica americana sul mondo dello spettacolo visto come industria pornografica, trappola per sprovvedute giovani starlette e fabbrica di immagini corruttrici. Dr. Jekyll and Mr. Hyde porta all’estremo quella riflessione, piantandone il seme in profondità nell’inconscio cinematografico.