Nella storia del cinema ci sono già stati autori che si sono avvicinati alla delicata questione del nazismo con toni anticonvenzionali. Si pensi al Charlie Chaplin de Il grande dittatore, all’Ernst Lubitsch di Vogliamo vivere! e in epoca più recente al Roberto Benigni de La vita è bella. In Jojo Rabbit quindi, significativamente sottotitolato una satira anti-odio, il regista Taika Waititi non propone un approccio del tutto nuovo. Ma la modalità con cui affronta la materia narrata conferisce alla pellicola originalità. Jojo (Roman Griffin Davis) vive nella Germania nazista e ha un inusuale amico immaginario: Adolf Hitler. Il bambino idealizza il regime e sogna di far parte delle guardie personali del Führer. Le sue convinzioni vacillano quando scopre che la madre (Scarlett Johansson) dà rifugio ad Elsa, una ragazza ebrea.
Waititi fa in modo che ogni elemento del film concorra a ridicolizzare quanto messo in scena: se il falso accento tedesco utilizzato dai protagonisti potrebbe inizialmente suonare bizzarro, con il proseguire della pellicola diventa chiaramente un espediente per rafforzare la comicità di certe situazioni e battute. Seguendo questa chiave di lettura, anche la scelta da parte di Waititi di impersonare Hitler risulta riuscita. Come tutti gli eventi del film, anche Hitler è rappresentato attraverso lo sguardo innocente di un bambino: non appare quindi il disumano dittatore che la storia ci ha consegnato ma un personaggio ilare, con uno strano taglio di capelli e che pronuncia frasi fuori dalle righe. Jojo vede in Hitler un eroe; alla sua età il nazismo diventa una sorta di club a cui appartenere per combattere la solitudine.
La pellicola (presentata nel 2019 al BFI Film Festival) cambia tono seguendo le esperienze di Jojo: alcune parti, come il rocambolesco inizio e certe sequenze verso la fine rimandano ad uno stile da cinema indie e a Wes Anderson in particolare. Altre, come quella dell’incontro tra Elsa (Thomasin McKenzie) e Jojo, virano quasi sull’horror: questo perché il bambino immagina gli ebrei come vampiri e ne è spaventato. Jojo Rabbit è anche un film sulla crescita e su come l’amicizia riesca ad abbattere barriere a prima vista insormontabili. Certo, sono temi già esplorati in altre pellicole (ad esempio ne Il bambino con il pigiama a righe), ma che in questo caso sono affrontati con un'onestà tale da non lasciare indifferenti.
Ricordando ancora una volta Wes Anderson, maestro nel coniugare musica e immagini, Waititi fa a sua volta sapiente uso di certi brani; la versione in lingua tedesca di I Want to Hold Your Hand apre la pellicola, Everybody’s Gotta Live fa da commento alle scene di guerra e Heroes arriva in un momento fatidico.
Se è vero che Waititi non si espone troppo, rimanendo in territorio sicuro (il suo è pur sempre un film distribuito dalla Disney), Jojo Rabbit funziona proprio perché non aspira a moralismi forzati, ma a qualcosa di molto più significativo: renderci consapevoli che l’odio è un sentimento difficile da estirpare e che se non combattuto può portare a conseguenze terrificanti. E visti i tempi di avversità all’inclusione in cui viviamo, dove la violenza e l’intolleranza verso il diverso imperversano ovunque, Jojo Rabbit diventa un film necessario, perché affronta temi che sono e continueranno ad essere rilevanti; poco importa se il linguaggio utilizzato è quello che va a toccare le corde giuste per giungere al grande pubblico. Perché il suo fine è proprio questo.