Più che un tradizionale biopic, Judy di Robert Goold è una riflessione meta-cinematografica sulla creazione e lo sviluppo della immagine divistica di Judy Garland come icona gay. Lo stesso personaggio del produttore Louis B. Mayer richiama la nostra attenzione sulla fruizione e sul consumo dell’immagine divistica da parte del pubblico quando, nel primo flashback del film, afferma che gli attori sono fatti per dare dei sogni alle persone.

Judy mette infatti in risalto i diversi aspetti della costruzione divistica della Garland che hanno da sempre esercitato un fascino particolare sulla comunità gay: il suo spirito di resilienza e resistenza di fronte ai rovesci professionali e privati che, dagli anni Cinquanta fino alla sua morte, hanno attratto la costante e morbosa attenzione dei media, il suo essere diversa e non conformista in un mondo che le richiedeva di essere ordinaria, il suo essere camp e la sua teatralità che riuscivano a trasfigurare i drammi privati in appassionate interpretazioni sullo schermo e sul palcoscenico. Come riassume Richard Dyer nel capitolo dedicato alla diva in Heavenly Bodies, Judy Garland ha rappresentato un importante punto di riferimento per tutta la cultura gay, prima e dopo il movimento di liberazione omosessuale, iniziato con i moti dello Stonewall Inn nel 1969 ad una sola settimana dai funerali della diva.

Tratto dalla pièce teatrale End of the Rainbow (2005) di Peter Quilter, Judy si concentra sugli ultimi mesi di vita di Judy Garland, nell’inverno del 1968, periodo in cui fu costretta ad un ritorno sulle scene londinesi per guadagnare i soldi necessari per la custodia dei due figli avuti dall’ex marito e impresario Sid Luft. Attraverso una serie di flashback che ci portano sul set irreale e fantastico de Il mago di Oz, il film ci mostra anche gli esordi di Judy Garland nel mondo dello spettacolo, sotto contratto con la MGM del perfido Louis B. Mayer. I ritmi estenuanti e l’infelicità sentimentale che il produttore le impone lasceranno un danno indelebile nella diva adulta, causandone le più diverse e dannose dipendenze.

Fin dalla prima scena, il film mette in evidenza lo spirito combattivo della star di fronte alle avversità e all’oppressione: Garland ha infatti appena saputo che l’albergo dove alloggia con i due figli l’ha sfrattata. Judy si colloca, quindi, fin dall’inizio, in quel registro emozionale della riaffermazione di sé che Dyer vede come preponderante nell’immagine divistica di Judy Garland e che risulta particolarmente significativo per un pubblico gay, abituato a resistere all’oppressione e discriminazione. Tutto il film gioca effettivamente su questo registro: scena dopo scena, Garland lotta per riaffermarsi professionalmente come star e come cantante contro l’establishment che la ritiene inaffidabile, mentre nella vita privata il suo riaffermarsi è come madre e moglie contro i media che espongono i suoi guai sentimentali, le dipendenze, i tentativi di suicidio, e la condannano come madre per aver lasciato i figli oltreoceano. La sua lotta è esplicitamente costruita in parallelo alla lotta dei suoi due ammiratori gay per il riconoscimento del loro amore e al riferimento alla tarda depenalizzazione degli atti omosessuali nel Regno Unito nel 1967.

La stessa struttura narrativa di Judy, con i suoi flashback che riportano la diva agli anni del suo contratto con la MGM in cui la patina del set si estende ad opprimere la sua vita, è quella di un costante coming out, un continuo tentativo di liberare l’immagine della Garland dal monopolio dello studio system. La diva, che la MGM vuole dipingere come la quintessenza della ragazza americana della porta accanto, esce allo scoperto in tutta la sua complessità fin dai primi anni di carriera. Judy mette in rilievo il conflitto vissuto dalla Garland tra il conformarsi alle richieste di normalità del dispotico Louis B. Mayer o l’assecondare la sua vera vena autentica, costituita, paradossalmente, dalla sua teatralità. Significativamente, è proprio questa teatralità, sottolineata con empatica intensità dall’interpretazione di Renée Zellweger, che il film porta al trionfo sul palcoscenico del Talk of the Town su cui Judy canta per l’ultima volta quell’inno di liberazione che è Over the Rainbow.