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“Judy” e la costruzione di un’icona gay

Più che un tradizionale biopic, Judy di Robert Goold è una riflessione meta-cinematografica sulla creazione e lo sviluppo della immagine divistica di Judy Garland come icona gay. Lo stesso personaggio del produttore Louis B. Mayer richiama la nostra attenzione sulla fruizione e sul consumo dell’immagine divistica da parte del pubblico quando, nel primo flashback del film, afferma che gli attori sono fatti per dare dei sogni alle persone. Judy mette infatti in risalto i diversi aspetti della costruzione divistica della Garland che hanno da sempre esercitato un fascino particolare sulla comunità gay: il suo spirito di resilienza di fronte ai rovesci professionali e privati che hanno attratto la costante e morbosa attenzione dei media, il suo essere diversa e non conformista in un mondo che le richiedeva di essere ordinaria, il suo essere camp e la sua teatralità.

“Judy” alla Festa del Cinema di Roma 2019

L’inizio e la fine della carriera di Judy Garland, al secolo Frances Ethel Gumm, diventata con Il mago di Oz una star di prima grandezza e morta a soli quarantasette anni, consumata dall’abuso di alcol e pasticche. Il biopic Judy, presentato alla Festa del cinema di Roma, si muove tra questi due piani temporali, raccontando l’inizio del sogno, l’incubo che nascondeva e i suoi effetti distruttivi sulla vita della protagonista. Siamo nel 1968, e la Garland, quattro divorzi alle spalle – tra cui quello con il regista Vincente Minnelli, padre di Liza – si ritrova senza soldi e senza casa ed è costretta ad accettare una tournée di concerti nei teatri londinesi per poter rivendicare l’affido dei figli. Sono gli ultimi mesi della sua esistenza, i più difficili, schiacciati dalla cirrosi epatica, dalle dipendenze e dai fantasmi del passato.

“È nata una stella” e il one-woman show di Judy Garland

Nonostante si tratti di un musical tardo, la colonna sonora di È nata una stella ha la stessa potenza delle grandi produzioni degli anni ’30 e ’40, accompagnandoci dietro le quinte dei teatri di posa, alla scoperta di luoghi e personaggi; esattamente come accadeva nei film di Busby Berkeley e nelle produzioni targate Warner. Basti pensare al numero musicale d’apertura in Gotta Have Me Go With You, ma soprattutto la struggente The Man that Got Away, pezzo che lascia intuire le vere potenzialità drammatiche e vocali di Esther-Judy. Ma in realtà è l’excursus metacinematografico di I Was Born In A Trunk la vera anima del film; cucita ad hoc per le straordinarie capacità d’interprete di Judy Garland la sequenza è un one-woman show pressoché unico nella storia del cinema americano. 

“A Star Is Born” e la storia che si ripete

Se, come si afferma nel film, “la musica è fatta da 12 note, è il modo in cui vengono usate per dire qualcosa a fare la differenza”, viene da chiedersi in che cosa il debutto cinematografico di Bradley Cooper dietro la macchina da presa faccia la differenza rispetto ai suoi predecessori (William Wellman – 1937, George Cukor – 1954 , Frank Pierson – 1976), oltre al mero aggiornamento coreografico e di stile musicale. Ci si chiede, insomma, quale lettura ci offra del presente. Cosa ci vuol dire A Star Is Born, oltre ad invitarci a credere nei propri sogni e a ricordarci che con impegno, talento e fortuna si possono raggiungere tutti gli obiettivi? Perché questo messaggio non è particolarmente innovativo (se lo sente dire peraltro anche il protagonista di Erom, film di Yaron Shani anch’esso presentato a Venezia 75).

“Il mago di Oz”, Dorothy e la child woman

Una lettura metacinematografica del Mago di Oz può chiarire che la nostalgia verso un vecchio modo di fare cinema è la chiave per comprendere il personaggio: Judy Garland segna la fine dell’epoca della child-woman, ovvero della donna che recita la parte di una bambina. Quando Judy Garland, travestita da bambina per impersonare Dorothy (e quindi perfidamente defraudata del suo potenziale erotico), intona una suadente Over the Rainbow, l’associazione tra la voce e la fonte sonora crea un bizzarro cortocircuito.