Grazie alla presentazione del restauro di Kapò da parte della Cineteca di Bologna alla Festa del Cinema di Roma 2019, torniamo a parlare di un film dalla storia complicata; gli archivi conservati presso la Biblioteca Renzo Renzi ci raccontano le tappe della sua realizzazione e l'accoglienza di critica e pubblico. Rubando il titolo dell'articolo che Vasco Pratolini scrisse all'indomani dell'uscita del secondo film di Gillo Pontecorvo, si può affermare che, per la prima volta, un regista italiano affrontava il colossale tema dell'Olocausto mostrando, con una scrupolosa ricostruzione di taglio documentaristico, come un essere umano, posto in condizioni estreme di sopravvivenza, degradato ad animale, si trasformi da vittima in carnefice.
Pratolini scrive che "l'eroina diventa così il personaggio meno eroico, ma anche il meno prevedibile e unidimensionale, secondo un taglio del racconto e una variazione psicologica molto moderni e che oltre a delimitare una vicenda di per sé eccezionale, consente un giudizio nitido, squillante, una volta di più irrevocabile sui criminali cui si deve l'immane infamia del genocidio".
Il film fu presentato nel 1960, alla XXI edizione del Festival del cinema di Venezia - un'annata particolarmente calda che verrà ricordata per le accese polemiche scatenate dalle scelte della giuria - e come ricorda Ugo Casiraghi: "Kapò avrebbe meritato di figurare nella rappresentativa ufficiale italiana". Invece, fu proiettato nella sezione informativa e nell'ultima giornata; nonostante la strepitosa accoglienza ("nove minuti di applausi e un coro di critiche entusiastiche"), del film si parlò poco, scalzato dallo scandalo prodotto dalla premiazione dei vincitori, avvenuta poche ore dopo.
Nel 1961, il film, pur avendo ricevuto una nomination agli Oscar come miglior film straniero, subisce un durissimo colpo dalla penna dell'allora critico Jacques Rivette che pubblicò sui "Cahiers du Cinéma" un 'J'accuse', dal titolo altisonante Dell'abiezione, in cui si scagliava come una belva feroce contro il carrello in avanti che mostra il suicidio di una deportata (Emmanuelle Riva) che si getta sui fili elettrificati. Rivette condannò senza appello il regista, colpevole di aver voluto in questo modo rendere spettacolare la morte.
Pontecorvo senza troppo scomporsi, si difese affermando che il carrello in avanti gli era servito per avvicinarsi al volto della suicida e poter così comunicare più intensamente al pubblico l'interpretazione estremamente intensa dell'attrice. Inoltre, l'inquadratura, essendo leggermente in diagonale, permise di filmare il corpo della vittima scentrato verso sinistra, dando così la possibilità allo spettatore di vedere, sul lato opposto, un gruppo di prigioniere che, passando accanto al cadavere, lo guardano esprimendo un'assuefazione tragica al dolore.
Si può pensare che Pontecorvo si sia avvicinato al tema dell'Olocausto perché di origine ebrea. Invece, leggendo Memorie estorte a uno smemorato (Irene Bignardi, Feltrinelli 1999), si scopre che, nonostante la drammatica fuga dei genitori in Svizzera e il suo soggiorno a Parigi insieme al fratello Bruno, dopo la promulgazione delle legge razziali in Italia, Gillo non hai mai sentito un profondo legame con il mondo ebraico.
L'idea di Kapò, inizia a farsi strada da un soggetto di un giornalista francese, Dédé Lecaze, deportato a Mauthausen e capitatogli fra le mani un po' per caso. Era la storia vera di un boxeur dilettante che riuscii a sopravvivere nel campo di concentramento perché i suoi match rappresentavano uno svago per gli ufficiali delle SS. S'intitolava Il tunnel. Durante la preparazione del film, Pontecorvo e Franco Solinas (suo inseparabile amico e sceneggiatore) lessero Se questo è un uomo di Primo Levi, restandone molto colpiti, soprattutto quando lo scrittore racconta che, per mantenere l'ordine, le SS si servivano di prigionieri che sapevano il tedesco e le lingue degli altri deportati. Questi ultimi venivano inquadrati nelle gerarchie dei carnefici, trasformandosi nei peggiori aguzzini dei loro stessi compagni.
Passati alla fase della sceneggiatura i due ebbero uno scontro durissimo che solo il produttore del film, Franco Cristaldi, riuscì a far loro superare. Solinas la spuntò, probabilmente sostenuto dallo stesso Cristaldi. Ci sarebbe stata anche una storia d'amore nel film, tra l'adolescente Edith e un soldato russo, Sascha (interpretato dal bravissimo Laurent Terzieff), entrato da poco nel campo. Anche nelle recensioni più positive (Casiraghi, Chiaretti, Lanocita, Pratolini), i critici sono del parere che la parte più riuscita del film sia la prima, quella in cui il meccanismo della degradazione fisica, psicologica e morale è mostrato in tutta la sua spietatezza. Chiaretti scrive: "La seconda parte, se pur efficace, sembra sbiadita, quasi insincera. Probabilmente i produttori di Kapò hanno decretato che un film interamente costruito senza concessioni spettacolari, sarebbe stato un film ostile, sgradito al pubblico. E così, dopo aver impostato il suo tema, Kapò corre via per la tangente, a inseguire una storia d'amore che a volte sembra contrastare e debilitare quello che era stato detto prima".
Nella foto: Primo piano di lavorazione del film, 1959, Archivio Cristaldi.