La sensazione che si prova durante la visione del nuovo documentario di Alex Infascelli è quella di un grande spaesamento. Se uno spettatore fosse riuscito a intercettare gli occhi di qualcun altro, seduto, come lui, su una delle poltrone della sala, avrebbe certamente notato lo stesso sguardo sgomento, lo stesso grado di appetito di fronte alla figura enigmatica di Raffaele Minichiello. Originario dell’Irpinia, emigra negli Stati Uniti con la famiglia e si stabilisce a Seattle. Emarginato da chi lo considera un barbaro, poiché non parla una parola di inglese, da marine va come volontario in Vietnam; sul campo di battaglia gli viene da vomitare quando vede i corpi senza vita, ma resiste, combatte e a guerra finita torna a casa.

È un uomo diverso, il ragazzotto meridionale costretto a lasciare la propria terra in cerca di una vita più dignitosa comincia a ruminare in silenzio la possibilità di assassinare pubblicamente le promesse non mantenute dal sogno americano. Nell’ottobre del ’69 sale a bordo del Boeing 707 della TWA diretto a San Francisco, munito di fucile prende in ostaggio una hostess e dirotta l’aereo. Viene arrestato in Italia. Dopo il processo, il cinema vuole farne una star ma intanto trova l’amore, si sistema e vive, come tutti, tra gioie e dolori.

Presentato alla XVII edizione della Festa del Cinema di Roma, Kill Me If You Can è il tentativo di mettere in risalto lo straordinario di questa storia umana tanto singolare quanto banale che decolla a partire da un fatto eclatante ma trova vera propulsione nell’esistenza stessa del suo artefice; Minichiello è un vinto che si è misurato con le spinte avverse della realtà e ha provato a suo modo ad aggiustarne il tiro, tra ingenua avventatezza e inconsapevole reazionarietà. Si racconta alla macchina da presa, intervistato come i membri dell’equipaggio vittime del dirottamento e gli altri testimoni della sua vita spericolata. Filmato senza essere il centro, in mezzo alla costellazione degli eventi che sfilano sullo schermo, è egli stesso un accidente.

Non è la prima volta che il regista romano si confronta con la riflessione biografica: da S Is for Stanley a Mi chiamo Francesco Totti è l’esperienza individuale che contribuisce a sostenere o a creare il mito e in questo suo ultimo lavoro gli aspetti tipici del character study raggiungono, in chiave documentaristica, un risultato molto interessante. Lontano dal voler fornire un giudizio, Kill Me If You Can sembra cominciare sotto le sembianze di documentario divulgativo ma fin da subito imbroglia le carte. L’irruzione del found footage riporta la narrazione sul piano della non-fiction e la fa incappare in continue e lineari digressioni che rimandano anche all’immaginario dei grandi classici del cinema italiano e americano. Il reale e lo spettacolare risultano in aperto confronto. 

Dall’inizio alla fine viene da chiedersi se Minichiello non sia soltanto un uomo senza qualità che si aggira, con una buona dose di imprudenza, tra i colpi bassi che la vita e la storia gli hanno riservato, scegliendo talvolta tra il sensazionalismo e l’ordinario, tra il corteggiamento del male e la consolazione della fede. Attraverso questa proposta cinematografica, obiettiva come un romanzo naturalista, l’avventura di Minichiello sopravvive all’uomo che l’ha vissuta e la domanda ideologica sul significato di questa esistenza resta, per fortuna, senza risposta.