A volte i festival regalano testimonianze straordinarie, vere e proprie sorprese completamente inaspettate. Questo è il caso di Kim’s Video di David Redmon e Ashley Sabin, presentato in Italia al festival di Roma e, in questi giorni, ad Archivio Aperto. Il documentario realizzato tra New York e Salemi, piccolo comune siciliano, ci accompagna per un viaggio assurdo e dalle atmosfere underground.
Ci si chiederà giustamente cosa possa avere a che fare New York con Salemi. Bisogna cominciare dall’inizio. Kim’s video era un franchising dedicato ai film a noleggio che aveva costruito la sua fama grazie all’intraprendenza e al coraggio del suo proprietario Yongman Kim. Il coreano negli anni aveva accumulato un’ampia collezione di videocassette che contava più o meno 55000 film. Racchiudevano moltissimi titoli di nicchia o di difficile reperimento, gioia dei cinefili di New York, tra cui figuravano anche i nomi dei fratelli Coen o di Quentin Tarantino, nonché il principale autore di questo film David Redmon.
Nel 2008 quella che ormai era diventata una catena con vari punti vendita fu costretta a chiudere e Kim decise di cedere la collezione all’istituzione o ente che si fosse presentato con la proposta migliore per la conservazione e gestione del materiale. Per assurdo il comune di Salemi si candidò e riuscì ad ottenere i film promettendo di renderli disponibili per la comunità e di iniziare un lavoro di digitalizzazione, oltre all’idea suggestiva di realizzare una proiezione permanente.
Dopo diversi anni David Redmon inizia a chiedersi che fine abbiano fatto questi film, determinanti per la sua formazione di regista e di cinefilo. Per cui decide di partire, andare a Salemi e toccare di nuovo con mano quegli oggetti che sono a tutti gli effetti una parte di sè. All’arrivo nel comune siciliano, dopo vari siparietti divertenti con poliziotti perplessi e dipendenti comunali svampiti, con determinazione riesce a raggiungere il suo obiettivo. Il risultato, però è tutt’altro che felice: con grande amarezza si rende conto che la monumentale collezione di Kim si trova abbandonata all’interno di una struttura piena di muffa. Qui ha inizio l’Odissea di Redmon, un paladino disposto a tutto pur di salvare l’oggetto del desiderio, o meglio, della sua ossessione.
Girando interamente dal vivo, quasi improvvisando, il regista americano partorisce quello che, se non fosse documentato, sembrerebbe un film di finzione. Ci troviamo di fronte ad una carrellata tragicomica di incontri incredibili, tra personaggi surreali e politici “poco collaborativi” come Sgarbi, curiosamente sindaco di Salemi al momento dell’arrivo della collezione. Il film si trasforma progressivamente in un’indagine rocambolesca e apparentemente senza via d’uscita, in cui appare anche evidente l’impronta marcescente della mafia.
Al di là del lato grottesco, l’opera risulta interessante soprattutto dal punto di vista formale, in particolare per la capacità narrativa che riesce ad assumere nonostante, alla fine, si tratti pur sempre di un documentario. La ricerca svolta dai registi assume i connotati di un’avventura capace di sorprendere lo spettatore con soluzioni inaspettate che a un certo punto sfociano persino in una rapina. Un’epica dell’assurdo che ricorda quella intrapresa dal protagonista dal Drugo in Il grande Lebowski, determinato a riottenere il suo tappeto a qualunque costo.
Un altro elemento che caratterizza il film è l’inserimento di spezzoni tratti da altri film, commentati dalla voce di Redmon, come se fossero parti della sua esperienza a cui fare riferimento. Una fusione tra realtà e cinema in cui il protagonista si perde come un folle, incapace di discernere tra realtà e fantasia. E’ vero infatti che i film e le immagini in generale ormai popolano la nostra mente arrivando a comporla dandogli forma.
Tanto che si potrebbe definire la nostra identità come un mosaico di immagini, una raccolta frammentaria di fotografie che raccoglie momenti visti e vissuti, situazioni che spesso coincidono. La rappresentazione è sempre più verità e salvare quelle cassette dall’usura si trasforma quasi in un’operazione simbolica in cui il regista/protagonista salva metaforicamente se stesso dalla dissoluzione.
Kim’s video così ci proietta in un curioso viaggio dell’eroe, un avventura attraverso le pieghe della realtà spesso ancora più cinematografica del cinema stesso.