Nel 1942 era stato il grande e potente Frank Tuttle, regista affermato della Paramount, a prendere lo sconosciuto Alan Ladd per Il fuorilegge e a farne una star dal giorno alla notte. Una dozzina di anni dopo, l'ondata impietosa del maccartismo non ci è andata leggera con Tuttle, vittima di uno strano paese a stelle e strisce che odia i comunisti ma disprezza anche i delatori. Così Tuttle, escluso dall'industria hollywoodiana dopo il 1946, a causa delle sue simpatie comuniste, ha tentato di riparare in Francia ma ha poi deciso di rientrare “facendo i nomi” dei suoi compagni di partito nel 1951, chi può dire a quale costo personale.

Così ora è Alan Ladd è sceglierlo come regista de La baia dell'inferno (Hell on Frisco Bay, 1955), di cui è protagonista e anche produttore. Per sé riserva il ruolo dell'eroe, un poliziotto incorruttibile incastrato in passato da un'organizzazione criminale, che ora uscito dal carcere vuole vendetta, e in quello del boss malavitoso mette Edward G. Robinson, altra vittima della caccia alle streghe, che a oltre vent'anni da Piccolo Cesare sullo schermo è ancora più serafico e magnetico che mai.

Tuttle si trova a girare nel nuovo formato panoramico del CinemaScope, ma potendo fare affidamento su un budget da B-movie, risolve con un massiccio uso di interni e di trasparenti. E pur non potendo contare su alcuna scena d'azione spettacolare se non nella resa dei conti finale, ne ricava un film di grande dinamismo, dove incastri e rincorse fra i personaggi si susseguono in un ritmo avvincente. Nessuna inquadratura obliqua, nessuno sbilanciamento dell'immagine, nessuno smarrimento esistenziale o interrogativo morale. Se in altri suoi film (La chiave di vetro, Il fuorilegge) Tuttle complessizzava il tema della lealtà, qui Ladd procede dritto per la sua missione, e Robinson fa fuori i suoi collaboratori con sereno pragmatismo, senza curarsi affatto di preoccupazioni evanescenti come l'onore o l'affetto.

È un vero gangster movie duro e crudo, La baia dell'inferno. Tuttle concede un paio di sagaci battute hard boiled d'ordinanza alla sceneggiatura ma nulla più. Eppure, per quanto il regista sia molto più serioso che nei film passati, le statue religiose disseminate ovunque nelle stanze del boss criminale e la moglie religiosissima sembrano caricate, più che di un giudizio morale, di un'amara ironia.

Impossibile poi non soffermarsi sulle donne di Tuttle, al solito meravigliosi oggetti dello sguardo spettatoriale – e Tuttle riesce a erotizzare anche l'ombra di un microfono sul vestito candido e sensuale di una cantante di night club – eppure, sarà un caso, ancora una volta non lì per essere salvate, ma per aiutare l'eroe a salvarsi.