"I miei colori escono dalle mie vene. Son dolci i mì culor". Con questo soliloquio delirante si apre uno dei film più noti di Giuseppe “Pupi” Avati, La casa dalle finestre che ridono, opera di culto la cui influenza ha travalicato i confini nazionali. Già dai titoli di testa sporchi, accompagnati da musiche stridule e un vociare perturbante, si respira l’atmosfera del miglior cinema di genere italiano. Sarebbe tuttavia riduttivo incastonare semplicemente La casa dalle finestre che ridono all’interno di un discorso sul cinema dell’orrore della sua epoca, seppure in una posizione privilegiata.

L’unicità dell’opera risiede piuttosto nella personalissima visione di Avati, che si approccia al genere a più riprese, l’ultima delle quali è Il signor Diavolo. L’autore rifugge tanto il labirintico contesto della metropoli notturna quanto l’isolamento di tetre magioni in boschi inospitali. Avati prende piuttosto la famigliare realtà del paesino di campagna, che ha conosciuto quando sfollato per via della guerra, e ne orrorifica le dinamiche culturali, facendo emergere dalla favola contadina un sottotesto macabro ed esoterico.

Oltre che attraverso i forti contrasti luminosi e pochi essenziali artifici scenici, gran parte dell’inquietudine che permea La casa dalle finestre che ridono è trasmessa dal senso di spaesamento del protagonista, travolto da una società omertosa e sospettosa, in cui tutti sanno ma regna il silenzio, e la velocità con cui le dicerie si propagano è inversamente proporzionale alla densità abitativa.

Il soggetto ideato da Avati risponde alle regole della narrativa glocalizzata – focalizzato approfonditamente su uno specifico territorio quanto riconducibile a dinamiche extranazionali – e rappresenta, oltre che un caposaldo del cinema dell’orrore, un importante documento. La casa dalle finestre che ridono immortala infatti le tensioni della campagna emiliana, fotografa un microcosmo nel momento in cui sta sparendo, le cicatrici lasciate dal passato e il suo ineluttabile futuro.

Il lessico spontaneo e ruspante dei personaggi nasconde note dolenti: il lascito della guerra mondiale sul territorio e l’abbandono delle realtà di provincia per mancanza di prospettive. La sempre maggiore disabitudine a questa vita di periferia, affatto impersonale e dal ritmo disteso, rende forse l’opera dell’autore emiliano più perturbante al giorno d’oggi che al momento della sua concezione.

Sarebbe interessante sperimentare una visione “rustica” de La casa dalle finestre che ridono: immersa nel “vero buio di campagna”, accompagnata dal fruscio della vegetazione incolta e dal frinire degli insetti notturni nell’aria salmastra, magari proiettata sul muro di un casolare, finché ne esistono ancora.