Approdato nelle sale per soli due giorni di proiezione (21 e 22 novembre) il film di Valerio Jalongo (regista romano con una laurea in filosofia), Il senso della bellezza, porta al cinema la discussione su massimi sistemi, origine del mondo, e percezione della bellezza. “La religione del nostro tempo, la scienza, a volte sembra condurci per mano senza farci capire dove stiamo andando” è così che la voce narrante, calda e rassicurante, ci introduce nei 75 minuti di quello che ci pare inevitabile definire come prodotto di un cinema senz’altro “new age”, a causa del suo prestarsi come testimone dell’avvento di una nuova era (quella degli esperimenti del CERN, la Cooperativa internazionale per la ricerca nucleare), caratterizzata dalla fratellanza tra gli uomini (gli 11mila scienziati internazionali coinvolti) oltre che dalla innegabile volontà di suscitare serenità e senso di bellezza in chi lo guarda (attraverso l’uso della musica d’orchestra e di immagini ipnotiche).

Attraverso una narrazione suddivisa in capitoli (grandi scoperte, LHC, la danza infinita, lo specchio del mondo, metrica, ordine e caos) il documentario ci porta nella sede del Cern di Ginevra, presentandoci la comunità di scienziati che qui vive apparentemente distante dalle leggi comuni di una vita pratica, perseguendo come obiettivo quello, assai ambizioso, di comprendere chi siamo, da dove veniamo, da dove ha avuto origine l’Universo?

Per rispondere a queste domande l’Uomo ha costruito l’LHC (Large Hadron Collider), l’acceleratore di particelle grazie a cui è stata trovata la cosiddetta “particella di Dio” o bosone di Higgs, la più grande macchina mai costruita al mondo per indagare la realtà attraverso le leggi della meccanica quantistica, realizzando un esperimento unico: ricreare il big bang dentro questa macchina, una macchina del tempo, “macchina poetica perchè non utile, non appartenente ad un ciclo di produzione”. 

Insomma, il film sembra ammonirci a ricordare che se ora abbiamo una teoria che spiega quello che succede nell’Universo, è grazie al CERN. Eppure così come Eraclito diceva che “la natura ama nascondersi”, a noi pare che sia il film di Jalongo a nascondere un po’ la sua vera natura: alla fine della proiezione una domanda resta senza risposta, quale urgenza in primis ha spinto il regista a comporre la sua opera?

Assieme ad innegabili pregi qualitativi delle immagini scelte per rappresentare the sense of beauty, immagini che donano una luce poetica anche al groviglio di cavi e chilometri di acciaio che compongono l’LHC, un anello di ventisette chilometri e cento metri di profondità, non ci sembra chiaro infatti se il documentario di Jalongo voglia proporsi come una presentazione del Cern, della sua macchina grandiosa oppure semplicemente come riflessione filosofica per immagini, sul senso della bellezza appunto.

La pellicola esordisce come se volesse trattarsi di un film divulgativo sul Cern, poi si arricchisce delle voci di scienziati e artisti contemporanei chiamati ad introdurre un parallelo tra arte e scienza, che ci guida nella loro ricerca della verità. Infine a parlare restano quasi solo le immagini delle particelle fotografate all’interno della cosiddetta “caverna” (la pancia metallica dell’LHC all’interno della quale le particelle entrano in collisione) e la musica.

C’è molto di filosofico nel tentativo del regista di dare una definizione al concetto di bellezza. Così come nell’immagine di questo enorme cilindro chiamato non a caso “caverna”. Inevitabilmente si sovrappongono ai frame del film reminiscenze platoniche e tutto il fascino della pellicola si può riassumere in esse: la caverna del Cern rappresenta per tutti noi la ricerca costante della realtà delle cose che ci circondano, per condurre tale ricerca si torna a discutere sulla natura stessa della realtà.

Se è vero però che la bellezza è negli occhi di chi guarda, lasceremo ad ogni singolo spettatore la percezione qualitativa de Il senso della bellezza.