È qualcosa di più di un adattamento, questo nuovo Sir Gawain e il cavaliere verde: un atto coraggioso di mediazione, una traslazione narrativa che aspira a creare un ponte fra passato letterario e presente cinematografico. L’oggetto della trasposizione è un celeberrimo episodio del ciclo arturiano, e l’obiettivo dell’americano David Lowery è quello di tirarlo a lucido con gli strumenti del cinema d’autore più modaiolo, per farne un fantasy ultra-dark in grado di dialogare con l’audience cinefila di oggi. Una sfida rischiosa, insomma, almeno quanto quella raccontata nel film.

Il protagonista dell’impresa è il prode Gawain del poema originale, che accetta la sfida del maestoso Cavaliere Verde a cui ha tagliato la testa, e intraprende un episodico viaggio al termine del quale dovrà porgere a sua volta il collo e assumersi la responsabilità delle proprie gesta. Una chanson avventurosa, quindi, ma anche un romanzo picaresco di formazione: nel tentativo di coniugare queste due anime nel modo più accattivante possibile, Lowery trasforma il suo Sir Gawain in un racconto sostanzialmente bifronte, rapsodico ma lineare, destrutturato e romanzato al tempo stesso.

La dimensione caratteriale del poema arturiano, legata com’era ad un proprio, cavalleresco romanticismo, viene manipolata da Lowery per aderire al suo approccio drammatico e modernizzante. Quello del nuovo Cavaliere Verde non è più un giochetto condotto con lo scopo di impartire una lezione a un cavaliere arrogante. Qui c’è in ballo qualcosa di più gravoso: l’anima del protagonista. La posta in palio non è solo la vita di Gawain – che in questa versione non è ancora un cavaliere della Tavola Rotonda – ma la sua maturazione di giovane adulto: vale la pena sacrificarla pur di preservare la propria testa?

Che un autore in voga come Lowery – legato ormai da qualche tempo alla lanciatissima A24, casa di produzione del film - si faccia carico di un’operazione di svecchiamento così ardita è senza dubbio interessante. La struttura del racconto filmico, però, non sostiene il peso delle sue ambizioni. Il nuovo Gawain procede imperterrito da un episodio all’altro senza imparare nulla. Le avventure in cui incappa sono specchietti per le allodole, riflessi meravigliosi della sua debolezza di fronte a cui il giovane resta sostanzialmente indifferente. Non c’è gradualità nell’evoluzione di questo protagonista: la sua è una storia dove azione e personaggio, che nella struttura classica del racconto sono unità inscindibile, esistono su due emisferi separati. Sarà anche una scelta voluta, un tentativo di smorzare la partecipazione emozionale e stimolare lo spettatore a meditare sulla fallace condizione di Gawain (e sulla nostra mortale imperfezione?). La freddezza inerte del film, però, lascia poco spazio alla riflessione.

Lowery si sforza quanto può di rendere i vari quadretti delle strofe a sé stanti, di creare una dimensione fantastica tangibile, intrisa di quell’esistenzialismo patinato che aveva contraddistinto i suoi lavori più conosciuti (A Ghost Story su tutti). Infarcisce il film di inquadrature fantasmagoriche, esaspera l’elemento estetico nella speranza di rendere Sir Gawajn un fantasy oscuro e antiromantico come pochi. Considerata l’incompiutezza del racconto, però, l’approccio stilistico di Lowery appare eccessivo e sovrabbondante: nella dimensione fantastica del film il protagonista transita momentaneamente, ma non sembra mai davvero abitare.

Così, con il procedere della ballata, l’evoluzione di Gawain soccombe all’incedere della struttura ripetitiva, si diluisce nei singoli, insignificanti episodi senza che il protagonista acquisisca spessore. La sua scelta finale funziona da un punto di vista puramente allegorico, ma non torna a livello drammaturgico perché il viaggio di Gawain non ha portato a nessuna maturazione – tanto che, per giustificarla, Lowery deve ricorrere a un lungo flash-forward che è anche, guarda un po’, un furbissimo deus ex machina.

Il percorso del protagonista ammonta in fin dei conti a un nulla di fatto, e l’impressione è quella di un esercizio narrativo affascinante ma senza mordente. Concentrato com’è sulla sua galleria di meraviglie, Lowery fallisce nel tentativo di costruire una storia umanamente appagante, e finisce per sterilizzare la propria creatura. Il suo è un lavoro rigoroso e ragionatissimo nel proprio corpo filmico ma privo di un’unità che ne condensi il cuore in maniera appagante.

Il personaggio è l’anima del racconto; il fulcro dell’anima, sosteneva Platone, sta nel cervello. Sir Gawain e il cavaliere verde è un film sbrilluccicante, ma senza una vera anima: decapitato, per l’appunto.