Il concetto di “autorialità” dibattuto in Francia nel corso degli anni Cinquanta sulle pagine dei Cahiers du Cinéma può apparire oggi sorpassato da quello di autore come brand o di autore come una figura con una sensibilità codificabile più o meno saldamente inserita nella logica produttiva. Se la critica e i fandom di tutto il mondo hanno dedicato attenzione e venerazione ad autori postmoderni statunitensi come per esempio Wes Anderson, Spike Lee e Quentin Tarantino, individuandovi delle marche fortemente riconoscibili, il circuito australiano degli ultimi trent’anni non è da meno, con la presenza di un cineasta la cui ristretta filmografia, formata da soli cinque lungometraggi, è stata spesso troppo facilmente liquidata come kitsch e non abbastanza tenuta in considerazione.
Baz Luhrmann, classe 1962, è uno dei registi australiani più innovativi che lungo la sua carriera non ha mai esitato a esplorare i terreni della visione e dell’estetica, facendo della contaminazione dei generi, estrosa ed esagerata, una sua cifra inconfondibile. La commistione dei registri e l’incontro tra correnti eterogenee si evidenziano in modo significativo soprattutto in Moulin Rouge! (2001), un film che nel suo ventennale rimane ancora un punto di riferimento del musical sul grande schermo.
Terza opera del regista, Moulin Rouge! conferma un ibridismo già presente nei titoli che l’hanno preceduta: il musical sentimentale Ballroom - Gara di ballo (Stricly Ballroom, 1992) e l’altrettanto celeberrimo Romeo + Giulietta di William Shakespeare (William Shakespeare’s Romeo + Juliet, 1996) avevano già anticipato in effetti atmosfere di artefatta costruzione con una riscrittura e una visionarietà al limite del grottesco. A un’analisi più attenta, Moulin Rouge! può essere considerato infatti come il manifesto di alcuni tòpoi tematici prediletti da Luhrmann che ritorneranno in seguito nelle sue produzioni.
In primo luogo troviamo il racconto di un grande amore, ostacolato e combattuto dai protagonisti, come quello tra l’aspirante scrittore e la cortigiana più desiderata di tutta Parigi, il “diamante splendente” del Moulin Rouge vittima della tubercolosi, un elemento che in Ballroom era stato intrecciato con la differenza di classe e in Romeo + Giulietta con la contrapposizione familiare nella Verona Beach anni Novanta, per collocarsi poi in Australia (2008) nel contesto storico della Guerra del Pacifico.
In chiave più stratificata, Moulin Rouge! si offre in secondo luogo quale operazione in cui l’originale letterario viene calato nel gusto della contemporaneità, una tendenza ravvisabile già nel citato capolavoro shakespeariano così come nell’adattamento de Il grande Gatsby (The Great Gatsby, 2013) di Francis Scott Fitzgerald. La femminilità messa in scena da Nicole Kidman, a tal proposito, ri-attualizza le peculiarità di canoni letterari ben precisi: Satine, ingabbiata nel sogno dorato del palcoscenico e stretta nella morsa del ricatto e della malattia, da un lato eredita la drammaticità di Marguerite Gautier de La signora delle camelie (1848) di Dumas, percorrendo l’aggiornamento avviato da Verdi nell’ambito operistico italiano con Violetta ne La traviata (1853).
Dall’altro lato, l’archetipo della primadonna vede l’aggiunta delle caratteristiche femminili del musical cinematografico anni Cinquanta: la sequenza della protagonista sospesa sulla folla degli ammiratori come uno sparkling diamond è infatti debitrice delle coreografie acquatiche di Busby Berkeley eseguite da Esther Williams in un prodotto della Hollywood classica come La ninfa degli antipodi (Million Dollar Mermaid, 1952) di Mervyn LeRoy, in un gioco “pop” di citazioni capace di fondere poi la Marilyn Monroe de Gli uomini preferiscono le bionde (Gentlemen Prefer Blondes, 1953) di Hawks con Material Girl (1984) di Madonna.
Un altro tema ricorrente che trova piena affermazione in Moulin Rouge! inoltre è la presenza di una maschilità destinata alla solitudine: la predilezione per figure maschili in scacco o sottoposte a un epilogo tragico ricorre infatti anche nei personaggi incarnati da Leonardo DiCaprio in Romeo + Giulietta e ne Il grande Gatsby. Il percorso di crescita di Christian, interpretato da Ewan McGregor, ha come fine ultimo l’apprendimento della lezione più importante della vita che è quella di “amare e lasciarsi amare”, un côté più propriamente sentimentale in cui comunque McGregor dimostra grande credibilità al pari degli eroi affrontati in Trainspotting (1996) di Danny Boyle e in Star Wars: Episodio I - La minaccia fantasma (Star Wars: Episode I - The Phantom Menace, 1999) di George Lucas.
La vera grande firma che struttura e anima il corpus dei film diretti da Luhrmann è infine questa sua esplicita cinefilia capace di fagocitare al suo interno il teatro, la pittura e la musica del passato e della modernità. Alla stregua di maestri della narrazione classica hollywoodiana come Douglas Sirk e Vincente Minnelli, in cui il linguaggio verbale passava in secondo piano rispetto al valore del setting, della colonna sonora e dei colori, le opere del regista australiano sono accomunate dallo sviluppo dell’idea di un cinema in cui il manierismo predilige i codici visivi e musicali.
In Luhrmann dunque l’aggiornamento del mélo è un marchio che lo rende un autore capace di confezionare prodotti di ampio consenso commerciale e ricchi di riferimenti meta-cinematografici: interessante ricordare al riguardo che nel corso di un’intervista televisiva per la promozione di Moulin Rouge!, alla domanda di Oprah Winfrey Luhrmann le risponde di aver orchestrato un film “comico, tragico, operistico, ispirato a Bollywood”, ammettendo una propensione alla fusione di svariati generi.
La simbologia della tradizione precedente, tanto del cinema quanto dell’arte in generale, rappresenta per Luhrmann un serbatoio di tecniche linguistiche e di stile cui attingere senza paura, in un dialogo che vede la riattualizzazione del 1899, con l’iconografia della Belle Époque, dalle ballerine di cancan delle affiches di Toulouse-Lautrec alla Torre Eiffel, racchiusa e fisicamente perimetrata nelle mura del Moulin Rouge. Il processo di ri-semantizzazione investe poi l’universo stesso dell’industria cinematografica con un esasperato richiamo alla Golden Age hollywoodiana, in un divertissement oscillante tra parodia, omaggio e citazione, che non manca di includere etnie e cinematografie oltreoceano.
Le suggestive rivisitazioni dei brani musicali iconici della cultura pop tardo novecentesca (Labelle, Elton John, The Police) compongono invero una colonna sonora tumultuosa, un mix audace che ne fa un’opera che, cercando “volontariamente l’imperfezione” (Emiliani), ha comunque il merito di aver siglato la resurrezione del musical cinematografico del terzo millennio, riavvicinando lo spettatore a un genere dimenticato.
Smaccata e ironica, questa “traboccante esagerazione audiovisiva” (Morandini) cede spesso a soluzioni registiche iperboliche che riescono a inserirsi brillantemente nella tessitura visiva e narrativa, come se le tinte kitsch non sbiadissero la narrazione melodrammatica ma anzi la rafforzassero. Tra rimandi e appropriazione creativa, Moulin Rouge! a distanza di venti anni ha suggellato il modus operandi di Luhrmann, consegnandosi in conclusione come “una storia che parla di un tempo, di un luogo, di persone, ma soprattutto una storia che parla d’amore. Un amore che vivrà per sempre. Fine".