La questione del giudizio di Sam Peckinpah sul nazismo viene risolta già nei titoli di testa de La croce di ferro: immagini di repertorio delle atrocità commesse dal regime si alternano con quelle delle roboanti e sterminate parate militari cui Hitler assisteva con grande compiacimento. Il tutto accompagnato dal sottofondo musicale di un'allegra filastrocca per bambini, a sottolineatura ridicola e terribile dell'ottusità umana. Poi il film vero e proprio comincia, e resta sullo schermo solo un manipolo di militari tedeschi, impegnati a combattere nel territorio sovietico nel 1943, mentre la futura disfatta è ormai chiara e la politica delle alte sfere priva per loro di qualsiasi significato.

A reggere le sorti delle loro battaglie e della loro sanità mentale c'è il carismatico sergente Steiner (magnificamente incarnato da James Coburn in un ruolo che vale una carriera), un uomo tanto cinico e pragmatico a prima vista quanto in grado di dare una dirittura morale a uomini i cui istinti più disperati e distruttivi sono lì lì per affiorare in qualsiasi momento, anche contro donne e bambini. Nel mentre arriva dai fasti di Parigi il borioso capitano Stransky, un aristocratico prussiano recatosi su un fronte russo di cui non sa nulla con la sola intenzione di procurarsi la più ambita onorificenza, la “croce di ferro” del titolo.

Giunto quasi al termine della sua filmografia e della sua vita, Peckinpah ne La croce di ferro mostra come il suo pessimismo apparentemente ecumenico sulla natura riprovevole dell'essere umano non riesca alla fine a prescindere dalla ricerca di qualche barlume morale. Lo scontro inevitabile fra Steiner e Stransky si regge su un gioco di opposizioni nette – spirito di corpo e individualismo, coraggio e viltà, merito e privilegio – in cui il giudizio di valore sulle due parti non può che risultare forte e chiaro.

Il finale ahimè tronco (con un'alleanza poco convincente, ma anche una risata disperata che non si dimentica) è il frutto avvelenato delle vicissitudini produttive del film, con il regista ormai alcolista grave, incapace di rispettare piani di lavorazione e budget, costretto a rabberciare al volo una conclusione. Per il resto però “Bloody Sam” sembra più centrato che mai: i suoi tratti stilistici distintivi, il montaggio frenetico e il rallenti di sottolineatura dei momenti salienti, funzionano perfettamente nel suo unico film di guerra, evidenziando sia la convulsività dell'azione che il peso delle singole morti, memori di The Falling Soldier di Robert Capa.

Perché, di tutte le guerre possibili e gli tutti gli eserciti esistiti, Peckinpah abbia scelto proprio le gesta dei soldati nazisti del romanzo di Willi Heinrich, è più comprensibile di quanto parrebbe a un primo sguardo. Nel narrare la storia di questi “obbedienti senza causa”, La croce di ferro assume la prospettiva di chi sa di stare perdendo (e probabilmente morendo) dalla parte sbagliata della storia.

Il film uscì nel 1977, la guerra in Vietnam era finita con la sconfitta degli U.S.A. giusto due anni prima. Nonostante il grandioso successo in Germania e in Austria, la pellicola fu un sonoro flop di pubblico e critica, soprattutto oltreoceano. Certo, un tentativo di umanizzazione dell'esercito tedesco a soli trent'anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale poteva risultare disturbante (lo è tuttora), ma una riflessione generale sulla natura umana che accomunasse soldati nazisti e statunitensi era addirittura insostenibile.

Poi è arrivato Orson Welles, a dichiararlo il miglior film antibellico avesse mai visto. Poi ancora Quentin Tarantino, a dichiararne l'influenza su Bastardi senza gloria. Passato qualche decennio, resta oggi la chiara consapevolezza di trovarci di fronte a una delle sue opere maggiori della filmografia di Peckinpah, nonché a una pellicola imprescindibile della storia del cinema.