Una folla oceanica e festosa saluta Adolf Hitler col braccio teso, generando una vera e propria ola. Le ragazze, in pieno delirio, si ammassano verso il palco del führer nel tentativo disperato di stringergli la mano. In sottofondo c’è Komm, gib mir deine Hand, ben più nota su scala mondiale come I Wanna Hold Your Hand, ma le immagini d’archivio sono autentiche. Nel frattempo, Johannes “Jojo” Betzler scorazza per le strade di un ignoto paesino della Germania nazista, dispensando “Heil Hitler!” ai passanti. Nella sequenza iniziale di Jojo Rabbit, a ben vedere, è nascosta una chiave di lettura capace di valicare ogni ragionevolissima critica all’opera di Waititi: l’eccentrico tentativo di interrogarsi su quello che Ian Kershaw definirebbe l’”enigma del consenso".

C’è qualcosa di estremamente appropriato nell’accostare il mito beatlesiano all’acclamazione di Adolf Hitler in quello che resta, con tutta probabilità, il momento più incisivo dell’intero film, insieme alla sua (brillante) chiusura. Ed è appropriato perché Jojo Rabbit, con tutte le sue evidenti superficialità, resta un’opera che si concentra su quello che l’Hitler-Waititi rievoca costantemente come “cieco fanatismo".

Nell’annoso dibattito che riguarda limiti e pericolosità della cinematografia finzionale quando si interessa della ferocia nazista e della Shoah, Jojo Rabbit si pone senza dubbio nella schiera di film che si tengono distanti dalla ricostruzione verosimile della tragedia, lasciando a Spielberg e al compianto Claude Lanzmann lo scontro morale circa il “giusto” modo di testimoniare. Eppure, resta intenzionalmente lontano anche da La vita è bella e Train de vie, come un miscuglio di linguaggi sempre sopra le righe, quasi fastidioso nell’assenza di un contesto pienamente riconoscibile.

Si può obiettare che Waititi resti imprigionato in una produzione che non gli permette di spiccare il volo nella rappresentazione grottesca dei personaggi, che restano “bizzarri” ma mai davvero “contorti”. Si può finanche contestare che la ridicolizzazione di Hitler, della Gestapo e degli ufficiali tutti non risulti così ardita e che rischi di diventare simpatetica nella sua tragicomica goffaggine. Ma nelle visioni di Jojo, che si rifugia fanaticamente nel mito nazista, risiedono la fragilità delle ideologie, l’ipocrisia dei piani politici di ieri e l’incoerenza delle nostalgie odierne.

Mentre gli ufficiali-amanti Klezendorf e Finkel (Sam Rockwell e Alfie Allen) sfoggiano sgargianti e irregolarissime divise nel tentativo di respingere l’esercito degli Alleati, mentre l’istruttrice Rahm (Rebel Wilson) sacrifica piccoli “cloni ariani” trasformandoli in biondi kamikaze, il pastiche acquista confini più solidi nelle parole del piccolo Yorki: “it’s definitely not a good time to be a Nazi.” E se ancora oggi rimane estremamente difficile trasformare gli aspetti più tetri della Seconda Guerra Mondiale in una commedia che risulti intelligente e coraggiosa, non si deve commettere l’errore di considerare Jojo Rabbit come un film sulla Germania nazista. Un medium “pop” mai aspro come vorremmo, piuttosto, proprio perché impegnato a svelare al grande pubblico le caratteristiche irrimediabilmente attuali che compongono la banalità del male. Perché nel cieco fanatismo — che resta tale solo quando si è carnefici — rientra la contemporaneità, la stessa che è sempre più disposta a negare ciò che è stato, re-inventandosi complotti e aggrappandosi all’occorrenza a comodi (e vecchissimi) pregiudizi.

Nell’apparente impossibilità di conciliare istintività e aspetti storici più pertinenti, Jojo Rabbit è uno sguardo bambino intrappolato nelle manipolazioni seduttive del mondo adulto, un universo tanto spietato quanto carnevalesco. Una ricerca disperata di eroi, leggende e punti di riferimento che lo spieghino, quel mondo crudele. E a chi ha ormai smascherato le assurdità della persecuzione, non resta che danzare tra le macerie di una società sospesa nel tempo e nello spazio.