"Tutto è messo a posto per sempre nei luoghi ove passa la macchina di Renoir", scriveva Ennio Flaiano nel maggio 1940, sei mesi prima che il regista lasciasse la Francia per gli Stati Uniti, dove girò sei film, l’ultimo dei quali, in originale The Woman on the Beach, tratto da un romanzo di Mitchell Wilson (che, avendo studiato da fisico, proprio nel ’40 a New York lavorava da assistente di un altro famoso esule: Enrico Fermi). Se è vero che ogni cosa trova una sua sistemazione, nella gioia o nel dolore, attraverso lo sguardo di Renoir, lo stesso non si può dire della travagliata storia produttiva del film, uscito nel ’47: riscritto a più riprese e rimontato due volte per volontà della RKO, fu comunque un insuccesso e costò a Renoir la carriera hollywoodiana. Restaurato qualche anno fa a partire da un duplicato di sicurezza del negativo 35mm, lo si ammira oggi come un noir decisamente atipico, perché imbevuto di un’atmosfera sognante e di un torbido mistero legato alle implicazioni inconsce piuttosto che all’intrigo adulterino.

Sulla carta avremmo a che fare con un triangolo da manuale dello sceneggiatore dilettante. Il tenente della guardia costiera Scott Burnett, oppresso dai traumi della guerra e fidanzato con Eve, la più dolce delle bionde americane, intraprende una relazione clandestina con Peggy Butler, intrigante e afflitta moglie del pittore cieco Tod Scott (Robert Ryan, esperto da qui in poi di ménage à trois in celluloide: si vedano Nella morsa di Ophüls e La confessione della signora Doyle di Lang) è sedotto dal marito possessivo e manesco non meno che dalla sua signora (un’indecifrabile Joan Bennett), e comincia a frequentare la casa dei due coniugi tanto spesso che, nonostante i pericolosi tranelli tesi a Tod per capire se è davvero cieco, è lui il primo a sentirsi in trappola. Questa trappola – come da tradizione del noir – è il passato, che tormenta tanto chi desidera dimenticarlo (Scott, che non si è mai ripreso da un siluramento; Peggy, responsabile dell’infermità di Tod) quanto chi vorrebbe costantemente riviverlo (Tod, ossessionato da dipinti che non riesce neanche a distinguere tra loro).

Renoir si appropria del tema cardine del genere trasformando in simbolo di quest’incrostazione temporale il relitto spiaggiato della nave dove i due fedifraghi, dopo il loro primo incontro, si danno appuntamento. Dentro quella carcassa salmastra Scott e Peggy si illudono di poter sfuggire alle torture della psiche e ai sensi di colpa, mentre Tod, inquadrato con una perfetta carrellata in avanti attraverso un oblò (cioè un occhio), quasi ci inciampa mentre cerca di tornare in qualche modo a “vedere” chi lo circonda. Ma solo quando il pittore avrà distrutto quanto ancora lo incatena al passato ("nei quadri c’è la mia vista" urla a un certo punto) in una potente scena di ecpirosi liberatoria, gli ambigui rapporti tra i tre protagonisti potranno trovare uno scioglimento inatteso.

La chiave del film, tuttavia – e in questo sta l’irripetibilità del cinema di Renoir – sta nel cortocircuito onirico che unisce explicit ed incipit: all’incubo algoso di Scott, che nelle prime inquadrature sogna di sprofondare sul fondo del mare calpestando scheletri e di incontrare una donna bionda vestita di bianco, e al suo incendio subacqueo si fonde nel finale, con una sovrimpressione abbacinante, il volto di Peggy circondato dalle fiamme della casa dei Bennett. È davvero possibile sottrarsi al sogno, scampare alla solitudine, uscire dall’inquadratura? Mentre Scott, ipoteticamente guarito dalla sua malattia senza nome, si avvia verso gli scogli battuti dalle onde, non è poi così chiaro se davvero la sua meta sia una vita felice e prosperosa insieme a Eve, o non stia invece andando a fare una passeggiata sul pavimento dell’oceano.