Francia, 1944. All’interno di un elegante appartamento parigino Marguerite (un’egregia Mélanie Thierry) attende il responso circa la sorte del compagno di vita Robert Antelme, membro della Resistenza francese arrestato e deportato in Germania nel pieno della Seconda Guerra Mondiale. “E mio marito?” domanda ogni giorno al commissario collaborazionista Pierre Rabier, unico contatto in grado di fornirle notizie sulle condizioni dell’amato. Nei tanto fugaci quanto ambigui incontri al bistrot tra Marguerite e Rabier, le risposte sono costantemente effimere. Neppure i suoi fidati collaboratori, gli editori della rivista clandestina Libres, conoscono il destino di Robert. Marguerite si incipria il viso e passa sulle labbra un filo di rossetto color rosa vivo. Si accende una, due, tre sigarette. Una routine senza fine: si consuma piano e in maniera estenuante, vittima del tempo che passa. Aspetta impotente di fronte al mondo che si fa la guerra, sopravvive al dramma dell’assenza.
“D’ora in poi scriverò tutto. Saprai tutto quando tornerai”. In un flusso di coscienza dettato dalla voce fuori campo nel corso di tutto il film, Marguerite riporta la sua intima sofferenza sulla carta, metodo curativo per lenire la disperazione. Perché è bene sapere come il dolore della donna sia estremamente vero: i diari che scrive di getto furono realmente redatti da Marguerite Duras durante il periodo di prigionia del marito. Diari dimenticati e ritrovati dalla stessa autrice, poi raccolti in un unico libro dal titolo, appunto, La douleur (1985). Non sorprende, quindi, che Emmanuel Finkiel (già regista di Voyages, vincitore del César per la migliore opera prima nel 2000) abbia scelto di trasporre l’opera della Duras dividendola in due blocchi, quasi a voler distinguere due tipologie di dolore.
Se nella prima parte vi è la spasmodica e tormentata ricerca della verità per cui Marguerite necessita di un contatto con lo spazio esterno, camminando per le vie di Parigi e girando in bicicletta durante un allarme antiaereo, nella seconda parte, cioè dopo la liberazione della Francia, inizia il conseguente declino psicofisico. Da qui i pensieri di Marguerite si impongono sui dialoghi, è palpabile lo stato di isolamento e solitudine, completamente opposto al clima di festa che il popolo francese vive nell’agosto del 1944. Si soffoca, nella penombra dell’appartamento di Marguerite. Gradualmente iniziano a tornare i prigionieri di guerra, i deportati, i detenuti: qualcuno ha visto Robert nell’orrore del campo di concentramento di Dachau. Si insinua il dubbio, la percezione della realtà si fa sempre più distorta (Finkiel fa un largo utilizzo di soft focus per ridurre le figure umane a ombre scheletriche), le ore scorrono lente. Fino a una presa di coscienza sconcertante, vivida e terribile, al ritorno di Robert (“materia non ancora morta, ondeggiava tra la vita e la morte”) il 7 maggio 1945.
La Douleur. È il dolore: il desiderio cocente di tenere vivo l’amore della propria vita. Lo strazio del rivivere i ricordi, aggrappandosi esclusivamente alla propria interiorità, un percorso nel limbo dell’assenza.