Sospensione del dubbio e assoluta fede poetica: anche questa volta, Guillermo Del Toro si conferma garante sia dell'una che dell'altra. Mondi ordinari o straordinari che siano, sembra che tutte le sue favole costituiscano un universo di fantasmagorie di luci, suoni e colori in cui si può entrare, perdersi e magari non volerne più uscire. La forma dell'acqua è uno di questi microcosmi, contratto e immaginifico ma, nel contempo, passibile di una riflessione di ampissimo respiro.
La singolarità, fin da Il labirinto del fauno, sta proprio nel bisogno di aderire al piano della concretezza storica (in quel caso, l'occupazione franchista in Spagna, ora l'instabilità della Guerra Fredda negli Stati Uniti) sopraelevandosene e raccontandola proprio attraverso i più assurdi e impensabili correlativi-oggettivi: il fauno e il suo regno, la creatura anfibia di cui si innamorerà Elisa, l'inserviente sordomuta intrepretata da una folgorante Sally Hawkins.
Ma partiamo dal titolo del film: perché la forma dell'acqua? Forse perché nel cinema vi si sono sempre sugellate le più alte forme di amore: c'è la protagonista di Lezioni di piano che per un momento aveva deciso di legarsi indissolubilmente al silenzio imperante dell'oceano, insieme al suo pianoforte e c'è anche Jean Vigo, per cui l'acqua è quel luogo in cui è possibile scorgere la persona amata. E non a caso è nell'acqua che Elisa e il "mostro" consumeranno il proprio desiderio amoroso – similmente scandito dalle appassionate note di Alexandre Desplat, tra il languido e malinconico, idilliche e sempre incalzanti e coerenti con lo sviluppo della storia - un qualcosa di comunicabile al di là del dogmatismo linguistico e comunicativo di chi, d'altra parte, non capisce e ha bisogno di sopprimere.
In questo senso, La forma dell'acqua si insinua tra l'enorme mole di racconti sulla diversità e sul non-umano da sempre portati sul grande schermo e specialmente negli ultimi anni; sostanzialmente il tema è lo stesso, svariate sono le sue declinazioni. Primo fra tutti Arrival, racconto fantascientifico-esistenziale che sradica la visione antropocentrica ancora propria dell'uomo quanto Del Toro con il personaggio di Strickland\Michael Shannon: in entrambi i casi l'immediatezza è messa al bando da una volontà di abbracciare la diversità per comprenderla che si prende i suoi tempi, evitando di assorbirla all'interno dei propri orizzonti.
L'altro da sé acquista così pari dignità rispetto a chi crede di essere unico, e il discorso di Elisa sulla sua natura "mancante" di qualcosa è emblematico. Manca della possibilità di emettere suoni come Edward mani di forbice di godere di uno sei sensi più nevralgici, il tatto. Partendo dall'estetica straniante e le ambientazioni a metà tra lo sfarzo fiabesco e il gotico più cupo, Del Toro e Tim Burton si avvicinano principalmente per lo sguardo sottile e a tratti romantico con cui parlano della solitudine: con quella leggerezza e forza dell'immaginazione che li strappa dalla gravezza del respiro terrestre, mantenendo, tuttavia, un ponte tra le due dimensioni in grado di separare e unire nello stesso tempo.