La Guerra dei mondi di Byron Haskin, tratto dal romanzo di H.G.Wells, ritrova sul grande schermo la forza propulsiva degli effetti speciali di George Pal – Oscar speciale senza nomination nel 1954 - bilanciata dal sotto-tema spirituale che ci permette di osservare le dinamiche di uno sguardo alieno che incombe sull’umano.  I terrestri sono osservati dall’unico punto di vista degli esseri di altri mondi: il pianeta Terra scrutato nel cosmo senza confini, l’alieno agonizzante che guarda gli umani dall’abitacolo della macchina spaziale, le mante extraterrestri con occhi telescopici ai quali nulla sfugge.

La razza adamitica deve ritrovare se stessa, nel raccoglimento religioso di una chiesa in rovina o nella strenua lotta per la sopravvivenza, mentre gli “altri”, invisibili e senza forma, vedono tutto e sono votati allo sterminio. L’alieno è “l’estraneo”, secondo un’accezione non propriamente fantascientifica, che rappresenta l’altro da sé che non possiamo (ri)conoscere attraverso un’etica del giudizio; gli ospiti cattivi sono quindi alieni per amor di genere, travestimento del terrore multiforme che Hollywood ha saputo condensare in un vivido immaginario a partire dagli anni Cinquanta, quando La Cosa da un altro mondo di Christian Nyby svelò il pericolo dall’alto e, contemporaneamente, la mitologia del cover-up governativo sugli Ufo.

La Guerra dei mondi inscena così i fantasmi di un’epoca in cui si fantasticava, spaventandosi, di contattismo e pericolo comunista: i rossi con la loro scienza soprannaturale sono le mante che sbucano dalla terra e scrutano nell’orizzonte politico e fisico del visibile, penetrando in una Los Angeles in rovina, finis terrae senza storia né volto, rappresentata come un quartiere vuoto che si getta in un futuro sconosciuto. Diversamente dall’archetipo della frontiera che divideva in modo chiaro buoni e cattivi, nel cinema di fantascienza degli anni Cinquanta tutto può essere pericoloso e ogni solida base romanzesca può trasformare l’evasione di genere in riflessione politica sul complottismo; del resto, secondo Friederik Pohl la libertà d’opinione era rimasta solo nelle riviste fantascientifiche, mentre il dispotismo anti-comunista di McCarthy aleggiava ovunque, anche e soprattutto nelle pellicole di science fiction.

La metafora del pericolo multiforme diventa chiara quando, caduto in picchiata il corpo celeste, i testimoni pensano a un disco volante, a una bomba, o all’attacco da parte di nemici invisibili. Tutto è un paradigma simbolico e voyeuristico, annegato in una città che si trasforma nella la-la land rovesciata in cui gli incubi risuonano come la voce dell’alieno – ghiaccio strofinato sul microfono sovrapposto a urla femmnili - o il grido disperato di Sylvia alla vista dello zio morente sotto i raggi letali dei temibili marziani.