Non sembrano passati venticinque anni dall’ultima volta che ci si è addentrati nei reparti del Righospitalet, o perlomeno non sembra intercorso un lasso di tempo così ampio nel momento in cui le porte dell’ormai celebre ospedale di Copenaghen vengono nuovamente spalancate per accogliere la cinepresa di Lars von Trier. Eppure è l’autore stesso che, prima di condurci nuovamente in quel cosmo seppiato e popolato da personaggi grotteschi, ci ricorda che in realtà questa terza stagione di Riget arriva in un momento diverso rispetto alle precedenti.

La serie, trasmessa in due frammenti distinti nel 1994 e nel 1997 è oggi un cult venerato con solennità quasi religiosa dagli ammiratori del regista danese, il quale negli scorsi due decenni ha saputo svincolarsi dalle maglie di un cinema neoavanguardista per guadagnare uno statuto autoriale universalmente riconosciuto. Dall’alto di questa posizione di innegabile prestigio, Trier può quindi permettersi di riflettere sul proprio ruolo creativo, abbandonare la sopraelevata posizione di istanza narrante e calarsi personalmente nell’abisso di macabra ironia da lui stesso creato.

Nella prima scena di Riget Exodus, una donna assiste in televisione all’ultimo episodio della seconda stagione della serie, per poi togliere il DVD dal lettore e borbottare la propria avversione nei confronti di quanto appena visto. Una nota di biasimo che però non riesce a celare un profondo coinvolgimento emotivo già instauratosi con l’opera appena fruita. È in questo modo, attraverso la visione di un prodotto televisivo del passato, che la protagonista Karen riceve una sorta di battesimo diegetico ed entra nella storia con il compito di spalancare nuovamente le porte del Regno.

Si tratta un prologo già pregno di significati. Innanzitutto c’è la volontà di familiarizzare col pubblico ed innestare una componente metanarrativa che ricoprirà un ruolo sempre più importante nel corso dei nuovi episodi. C’è però anche una volontà quasi romantica di accompagnare il pubblico di oggi alla riscoperta di un mondo che, nonostante il tempo trascorso, è rimasto insospettabilmente simile a come era stato presentato. Così il formato panoramico ad alta definizione adottato per l’apertura viene assorbito dal granuloso 4:3 ben noto agli spettatori delle prime stagioni, assieme al quale tornano i grezzi movimenti di macchina e gli stacchi imbizzarriti, in una ritrovata anarchia registica che in quanto a stile rende Exodus l’opera più strettamente “dogmatica” del Lars von Trier post Duemila.

Eccoci qua, dunque, venticinque anni dopo a muoverci tra le corsie di un mondo in cui è impossibile distinguere il bene dal male, ma nel quale si è chiamati ad accettare entrambi. La premessa rimane la medesima, così come gli esilaranti personaggi, in gran parte sostituiti da volti nuovi eppure sostanzialmente identici ai loro predecessori. Tutto al fine di riprendere le linee narrative brutalmente troncate all’epoca e portare l’intero discorso ad una definitiva conclusione. La fine, appunto, è la terribile verità con cui tutti gli abitanti del Regno devono confrontarsi e dalla quale tentano inutilmente di fuggire. E quale miglior modo di fronteggiare l’orrore se non contrapponendogli, di nuovo, una comicità dai tratti demenziali come deterrente?

Riesumare Riget per Lars von Trier significa rispolverare il suo lato più ferocemente satirico, aggiornandone i bersagli e attingendo al contemporaneo gli oggetti dello scherno, ma è anche perseverare nel percorso di raffigurazione dell’angoscia, concedendo forma alla sua mutevolezza e a tutta la sua assurda alterità. È ancora lo straniamento il materiale grezzo da cui Riget viene forgiato, per replicare anche a distanza di anni la malefica intellegibilità di un presente sempiterno che può acquistare senso solamente se assorbito dall’arte del racconto. Ed ecco dunque il ritorno della centralità della figura dell’autore, sorgente da cui tutto sgorga e strumento ultimo tramite cui tutto deve finire.

Exodus è l’opera con cui Lars von Trier tematizza il proprio processo creativo, rivendicando il potere sulle sorti dei propri personaggi, palesandosi nei panni del demiurgo ma assumendo anche il ruolo luciferino di forza distruttrice delle sue creazioni. A venticinque anni di distanza, un intervallo densissimo di mutazioni ed aggiornamenti per i linguaggi della serialità, questo progetto televisivo gode ancora di un fascino perturbante ineguagliato. Nell’epoca in cui la tv d’autore si è ormai solidamente istituzionalizzata, esso risponde ancora alle proprie regole e riesce miracolosamente di mantenere inalterata la freschezza di cui ha goduto a metà anni novanta.

Impossibile, in questo senso, non scomodare il paragone con Twin Peaks, prodotto seminale di cui Riget ha costituito il deformato riflesso in chiave europea, e del suo meraviglioso revival, anch’esso giunto a cinque lustri dalla chiusura ufficiale della serie.  Il legame con la serie di David Lynch e Mark Frost è oggi più solido che mai vista l’affinità tra i due prodotti e i rispettivi seguiti non solo sul piano pragmatico (realizzativo e distributivo), ma anche su quello sintattico, che vede in questa terza stagione degli inequivocabili riferimenti stilistici.

Citazionismo che, rivisitando anche l’iconografia di Bergman e attingendo alla rappresentazione del vuoto tarkowskjano, risulta una giocosa ed apprezzabile ostentazione di cultura cinefila da parte dell’autore, il quale però afferma prepotentemente la paternità su quella che è forse la sua opera definitiva, totalmente pervasa dalla sua presenza e percepibile quasi come un’estensione della sua stessa personalità. Perché infine si torna lì, a concepire Exodus come una disperata ed esilarante visione del mondo da parte di uno dei più geniali cineasti europei degli ultimi decenni.

Il tassello conclusivo di un capolavoro seriale che si fa beffa delle canoniche forme dell’audiovisivo per concedere un’adeguata, terribile ed esilarante raffigurazione dell’ambiguità del reale.