Tratto da un racconto di Giorgio Bassani ed ispirato all’eccidio fascista di undici cittadini ferraresi, La lunga notte del ’43 (1961) dell’allora esordiente Florestano Vancini segna l’inizio per Pier Paolo Pasolini di un intenso periodo di impegno cinematografico, prima come sceneggiatore, e successivamente, come regista. La rielaborazione del racconto, a cui, oltre Pasolini, collaborarono lo stesso Vancini e Ennio De Concini, aggiunge l’elemento melodrammatico del triangolo amoroso alla narrazione di Bassani, funzionale a commentare l’impotenza, sessuale e politica, del maschio borghese italiano e a denunciare, anche meta-cinematograficamente, l’incapacità di “saper vedere” della borghesia italiana. Lo stesso trailer originale caratterizza La lunga notte del ’43 come un film “[sul]la realtà che avete vissuto e non visto”.

In una Ferrara nebbiosa e spettrale dopo l’8 settembre, il tradimento della bella e indipendente Anna (Belinda Lee), sposata con l’invalido farmacista Pino Barillari (un superbo Enrico Maria Salerno), si intreccia con il rastrellamento e l’esecuzione di undici anti-fascisti, in cui troverà la morte anche il padre dell’amante di Anna, Franco (Gabriele Ferzetti, un personaggio assente nel racconto). Su questa trama melo, vengono innestate tematiche tipicamente pasoliniane come la polemica verso una borghesia incapace di prendere una posizione politica e l’interesse per l’evoluzione dei comportamenti sessuali e dei rapporti di genere nell’Italia del dopoguerra.

Pino e Franco sono, infatti, due facce dello stesso maschio borghese impotente. Pino è impotente sessualmente per una malattia venerea contratta probabilmente durante la Marcia su Roma e trascorre le giornate guardando i passanti dalla finestra del suo appartamento sopra la farmacia. Pur essendo testimone dell’eccidio, Pino rifiuta di denunciare i responsabili in quanto significherebbe riconoscere il tradimento della moglie che ha visto rincasare nelle prime ore del mattino. Franco è certamente più attivo sessualmente, ma la sua è una sessualità priva di emotività e di capacità di impegnarsi per un futuro insieme con Anna, facendo una scelta contro le convenzioni sociali. Come il regime, è interessato alla donna solo come corpo da possedere e controllare.

Come Pino, è politicamente impotente, incapace di compiere una scelta di resistenza attiva al fascismo: anche al suo ritorno nella Ferrara degli anni 60, incontrando il responsabile dell’eccidio, lo descrive alla moglie svizzera come una persona che non si è mai macchiata di crimini. L’epilogo, aggiunto rispetto al racconto di Bassani, è introdotto, come l’inizio del film, da un’assolata panoramica di Ferrara da sinistra verso destra, mentre la scena iniziale coglie la città nella nebbia e in senso inverso, in un doppio movimento di macchina che ricorda quello di Roma, città aperta (1945) e che sottolinea un elemento di continuità e connivenza tra la Ferrara repubblichina e quella degli anni 60.

Franco, come Pino e come la borghesia italiana, si rivela incapace di vedere gli eventi che ha vissuto. Si rivela anche incapace di capire che Anna rappresenta un altro tipo di femminilità rispetto a quella del cinema e della cultura fascista: non a caso i due amanti si incontrano ad una proiezione di Violette nei capelli (1941) di Bragaglia e il film è disseminato di riferimenti al cinema e ai programmi radiofonici fascisti. In contrasto all’immagine divistica di Belinda Lee come bellezza da peplum o come spalla comica per Benny Hill, Anna è una donna che sfida le convenzioni e vuole un futuro sessualmente e sentimentalmente appagante.

All’incapacità di vedere dello spettatore borghese, La lunga notte del ’43 contrappone un’idea di cinema che costringe a scavare sotto le superfici e le convenzioni sociali e politiche, combattendo l’amnesia storica che porta all’indifferenza: significativo, a questo proposito, il lungo piano sequenza in cui la macchina da presa esplora l’appartamento di Franco con la sola voce fuori campo dei personaggi come elemento umano.