A settantasei anni dallo svelamento della più grande tragedia umana del Novecento ci si interroga ancora incessantemente su quali siano le modalità più appropriate per interfacciarsi alla memoria in ambito cinematografico, quali siano i requisiti e quali i patti morali necessari alla sua preservazione. È l’annoso dibattito tra etico e poetico, un confronto acceso sulle modalità di ri-attualizzazione del tragico storico, dalla contestazione critica sulla (presunta) incapacità dei cineasti di immaginare l’inimmaginabile alle difficoltà tecniche e artistiche nel tentativo di “presentificare l’assenza”. Le polemiche circa le possibilità e i limiti di ricostruzione della memoria tragica non accennano a placarsi, anzi: se Claude Lanzmann, in vita, continuò a considerare Schindler’s List di Spielberg come una deformazione della verità storica, oggi il dibattito appare ulteriormente complesso. Sì, perché oltre a selezionare eventuali contaminazioni e sacralizzazioni del ricordo tragico della Shoah, siamo oggi costretti a misurarci con quella che Michele Guerra definisce la “rinuncia a intravedere nell’epoca della visibilità totale.” Come restituire un senso vivo al passato? Come si “maneggia” la memoria? È possibile tramandarla senza contaminarla? Qual è — e quale può essere — il ruolo del cinema — che è da sempre sovrapposizione di arte e industria, fantasia creativa e capitale — nel processo odierno di ri-attualizzazione?
L’attuale incapacità a ricongiungersi con la tragedia è il motore di un’opera tra le più rilevanti del decennio appena trascorso, Austerlitz: un documentario che mostra quanto la memoria storica sia soggetta a sempre più difficili condizioni di visibilità. Nel film, Sergei Losnitza sfrutta una serie di inquadrature a camera fissa per raccontare a debita distanza (fisica e morale) una tipica visita al campo di sterminio di Sachsenhausen. C’è chi si fa fotografare al palo delle esecuzioni, chi consuma panini davanti ai forni crematori, chi si scatta selfie davanti alla scritta Arbeit macht frei. Ogni gesto catturato dalla cinepresa ci appare stridente: gli atteggiamenti degli avventori sembrano smentire, di fatto, l’effetto traumatico che ci si aspetterebbe da un luogo che fu scenario di tragedie tanto efferate, mentre il limite fra dark tourism e commemorazione sbiadisce e annulla gran parte dell’intento memoriale. Ma il disagio che Losnitza desidera restituire è estremamente attuale: l’esperienza museale fornisce tante informazioni tecniche sull’organizzazione del campo ma sembra incapace di riconsegnare altrettanto in termini di riflessione e di rievocazione della memoria tragica.
C’è una tendenza, nel cinema che negli ultimi dieci anni si è occupato della Shoah e delle atrocità naziste, a spostare i termini dei processi narrativi della memoria. Un meccanismo che è specchio di un’urgenza, come se i metodi di indagine, le testimonianze e il racconto dettagliato del dolore non bastassero più. E allora si cerca di cambiare punto di vista, quasi per riallineare lo sguardo di una collettività che tende a rimuovere tutte le informazioni che non giudica più utili né pertinenti al proprio modo di vivere. È come se il cinema, nel riallacciarsi alla memoria, non possa fare a meno di misurarsi col contemporaneo, con i tempi in cui le persecuzioni assumono altre forme di legittimazione e il confine sociale tra “bene” e “male” appare sempre meno nitido.
È il caso di documentari — alcuni non ancora distribuiti su larga scala — come The Accountant of Auschwitz di Matthew Shoychet, Speer Goes to Hollywood di Vanessa Lapa e Final Account, l’ultima monumentale fatica di Luke Holland, che spostano il focus dalla vittima al carnefice, come a voler indagare i termini e le ambiguità del consenso. Sono ritratti di persone ordinarie trasformate in complici, le incoerenze di personaggi controversi mai pienamente “assolti” dalla Storia. Racconti che, nel caso di Final Account, innescano un conflitto generazionale tra chi ha partecipato al dolore e chi è invitato a immaginarlo.
Ma il dibattito, come sempre, non può esaurirsi in ambito documentario. E tra i prodotti di finzione più recenti, Jojo Rabbit è quello che si tiene maggiormente distante dalla ricostruzione verosimile della tragedia. Un film, quello di Taika Waititi, che oltre a guadagnare l’Oscar per la sceneggiatura ha attirato su di sé un numero nutrito di polemiche sulla satira e gli anacronismi esibiti. Sono critiche che rievocano agilmente la sorte di produzioni come Olocausto — la miniserie televisiva di Marvin J. Chomsky — e La vita è bella di Benigni ma, intendiamoci, nessuno di questi film si è occupato di una teoria dell’Olocausto, né di imitare la tragedia. Piuttosto, anche pericolosamente, di re-inventarla. Se Spielberg, al contrario, si occupò di ricostruire le atrocità (tanto da realizzare un set “riflesso” del campo di Auschwitz), Jojo Rabbit entra di diritto nella schiera dei film che utilizzano la memoria come medium, nel tentativo di raccontare una storia poco autentica ma “quasi vera”, che conquisti facilmente le emozioni dello spettatore. Come per “sensibilizzarlo” facilmente, a distanza di sicurezza dalle atrocità.
Nell’apparente impossibilità di conciliare pertinenza storica e bizzarrie dissacranti (luoghi immaginari, piccoli “cloni” ariani, carnefici ridicoli più che efferati), il film sembra misurarsi maggiormente con quello che Ian Kershaw ha identificato come un meccanismo ricorrente di adesione, che riavvicina il tempo delle persecuzioni naziste al nostro contemporaneo. È un fanatismo cieco che plasma mostri e nemici, come quelli che Jojo disegna in guisa di ebrei, una modalità disposta a negare e rinegoziare ciò che è stato attraverso le manipolazioni seduttive del mondo adulto, cinico, politico. E anche la narrazione di Jojo Rabbit è una conseguenza consapevole dei limiti odierni dello sguardo: laddove il dramma è irrappresentabile, persiste il tentativo di ricongiungere lo spettatore a un’empatia perduta, facendo leva su emozioni bambine. Con tutti gli ingombranti limiti del caso.
Quali altre possibilità narrative il cinema sfrutterà per tenere viva la memoria? Quel che è certo è che oggi le immagini chiedono disperatamente di essere viste, sentite, partecipate. E nel dibattito tra rigorosità e inadeguatezza, il cinema è ancora al centro, strumento di ri-memorizzazione, messaggero di una discussione che è essa stessa domanda e risposta. Nelle immagini, oltre le immagini.