“La storia di un omosessuale che sposò una ninfomane”: questa la problematica frase di lancio dell’Altra faccia dell’amore, discutibile titolo italiano di The Music Lovers, il film del 1970 in cui Ken Russell raccontò la vita di Pëtr Il'ic Tchajkovsky (Richard Chamberlain) e il suo matrimonio di copertura con quella che un secolo dopo avremmo definito una ‘groupie’, Antonina Ivanovna Miljukova (Glenda Jackson). Lo fece con la sua usuale e un po’ caciarona anima provocatoria, senza preoccuparsi di indagare le non poche ombre della complessa figura umana del grande compositore, scalfendo così l’aura agiografica che in Russia avvolge questa icona della cultura patria.

Non se ne preoccupa neanche Kirill Serebrennikov – regista russo inviso al potere e finito sotto il mirino della censura – che non ha perso la voglia di scandagliare i recessi morali (e immorali) della sua terra d’origine. Nel suo ultimo La moglie di Tchaicovsky ha scelto di raccontare la stessa scellerata unione tra Tchajkovsky e Miljukova ma, a differenza del film di Russell, ha deciso di mettere al centro della storia non il musicista ma proprio lei, Antonina (Alyona Mikhailova, fragile e granitica) di cui si ripercorre la nascita e la triste fine dell’ossessione cieca per quest’uomo che lei aveva innalzato a ideale inscalfibile di marito perfetto.

Serebrennikov, anche sceneggiatore, sceglie di inquadrare la protagonista nella società russa del tempo, in cui le donne acquisivano uno status solo in funzione e come diretta emanazione del marito; non avevano neanche documenti propri ma comparivano come ‘aggiunte’ sul passaporto del coniuge. Esseri umani che giuridicamente non esistevano, se non come mogli (ma anche madri, sorelle, vedove) di un uomo.

Così facendo rende meno folle la sua follia, meno incomprensibile un amore che Antonina costruisce a tavolino, inseguendo ciecamente un idolo assurdo che nulla aveva a che fare con la realtà dei fatti. Non una “ninfomane” (sic), ma una donna traumatizzata alla ricerca di un’identità, in un sistema in cui l’amore è più (solo?) un ruolo sociale a cui adempiere che un vero sentimento.

Questa passione assoluta si riflette nella costruzione che il regista fa dello spazio scenico: chiuso, soffocante, sena nessuna apertura all’esterno. Non ci sono panorami, paesaggi, luce, tutto è grigio, avvolto dalla nebbia e dal buio, stretto intono ai corpi e alle azioni dei protagonisti. Gli spazi si sovrappongono l’uno con l’altro, in un flusso trascinante e febbrile che impedisce quasi di respirare. Una corrente che travolge e confonde, togliendo la percezione del tempo, il senso dell’orientamento, il lume della ragione.

Il film non si fa scrupoli a raccontare le colpe di Tchajkovsky (un mimetico Odin Bajron) e quelle del suo entourage, che prima avvalla l’unione per mettere a tacere le voci sull’omosessualità del compositore, pericolose in un momento di ascesa (il matrimonio combacia con la composizione dell’Evgenij Onegin) e poi è pronto a denigrare e infangare la sposa dopo la fuga di Tchajkovsky dal tetto coniugale e da una vicinanza emotiva e fisica che lo ripugna. Un fango prodotto nel solo modo che la società ha sempre (e continua ancora) a trovare per colpire le donne che non sanno stare al loro posto: metterne in dubbio la morale, secondo la vecchia contrapposizione sante/puttane.

Alla fine però Serebrennikov non condanna e non giudica nessuno dei due: marito e moglie sono entrambi uccelli in gabbia, compressi dalle regole e dalle etichette che la società ha creato intorno a loro. C’è però una differenza: Tchajkovsky, in quanto uomo, può scappare, riprendersi una parte di liberta, per quanto piccola e parziale. Antonina no: stretta tra il ruolo di moglie che vuole assolutamente perseguire e la reale natura del suo matrimonio che non vuole accettare, non è in grado di fare buon viso a cattivo gioco, di fingere in una società che ha fatto della messa in scena ipocrita un tratto fondamentale e distintivo.

Lei nella messa in scena ci crede, fermamente, follemente, disperatamente. Non accetta il divorzio, che le garantirebbe la sicurezza economica, perché, se smettesse di essere la moglie di Tchaikovsky, per se e per gli altri lei non sarebbe nessuno. È forse per lei non c’è niente di peggio.