Continuano le proiezioni di La morte corre sul fiume, immortale opera unica di Charles Laughton, e Cinefilia Ritrovata prosegue con la pubblicazione di materiali open access. Oggi ripercorriamo le analisi di alcuni studiosi che si sono concentrati sul film.
Cominciamo da Bruno Fornara, che al film ha dedicato la prima analisi completa uscita in Italia (Charles Laughton. La morte corre sul fiume, Lindau, Torino 1998):
“Stilizzazione, espressionismo, illusionismo: chi si è occupato del film ricorre a termini come questi per indicarne atmosfera e scelte figurative. Robin Wood: “Il film è estremamente stilizzato e non-naturalistico”. Jeffrey J. Folks: “Ambientazione, personaggi e struttura della trama sono tutti espressionistici”. Yann Tobin parla di trasgressione, oltre che religiosa, morale e sessuale, anche cinematografica. Lo sguardo ammette ogni trasgressione: “Non sorprende che una inquadratura mostri un fiume filmato in esterni e il controcampo un fiume ricostruito in studio, trasfigurato dalle luci e da un modo di inquadrare volutamente irreale”. Non ne deriva nessuna frizione perché natura e studio, lungi dall’essere in opposizione, si completano e si arricchiscono per proporre una visione globale allo spettatore; e la lenza dello zio Birdie che pesca sulla barca, mettendo in atto la trasgressione da un luogo all’altro, rende plausibile il passaggio dall’altro lato dello specchio.
Ci spostiamo, nel film, al di qua e al di là dello specchio, tra immagini del reale e immagini della finzione, tra semplicità e stilizzazione, entrambe coscienziosamente e coscientemente costruite. […]
Fra i trucchi e gli strumenti adoperati per comporre l’universo stilizzato del film, il più evidente e di maggior peso, anche per le implicazioni con gli andamenti narrativi e tematici, è il lavoro sull’ombra e sulla luce. Powell si presenta come signore delle ombre e la battaglia che si ingaggia, nel film, tra bene e male, tra Powell e Rachel, è anche una battaglia tra tenebre e luce. A prima vista, sembra esserci nel film un manicheismo luministico che ripete quello morale messo in scena abilmente e semplicisticamente da Powell nella lotta tra le due mani. In realtà, le luci e le ombre disegnano percorsi di senso complessi che giungono a dire il contrario, come cioè sia impossibile separare le une dalle altre e come sia necessario uscire anche da questa opposizione rigida e bloccata. Così come si deve venir fuori dall’immobile storia di uccisioni, ugualmente va abbandonata la metafisica della luce e dell’ombra, la credenza illusoria che bene e male possano stare uno su una mano, l’altro sull’altra, uno dentro la luce, l’altro nell’ombra. Nella pura luce si vede altrettanto poco che nell’oscurità. La rigidità delle divisioni nette impedisce di vedere sfumature e differenze. Anche a questa conclusione ci sembra arrivi il film, insieme e parallelamente all’altra su cui abbiamo già ragionato dell’uscita da una storia univoca e criminale. Per cercare di dimostrarlo, dobbiamo rifare il percorso che le luci e le ombre disegnano in molte sequenze e proseguire nella scoperta di qualcun altro dei segreti che i narratori, nascondendoli anche tra luce e ombra, hanno lasciato lungo il film.
La prima apparizione della grande ombra di Powell, come sappiamo, arriva nella sequenza 9 [quella in cui giunge a casa Harper], momento in cui viene mostrata la sua diabolica e illusionistica abilità nel padroneggiare la propria ombra, gigantesca sul muro della stanza, per sopraffare John, e al tempo stesso viene suggerita dai narratori la dipendenza di Powell e della sua piccola ombra, allungata sul terreno, da una luce lontana e celeste. Powell, nello schema manicheo dell’opposizione tra luce e ombra, è il signore dell’oscurità e del male travestito da pastore del bene. La battaglia tra luce e ombra diventa, dalla sequenza 9 in poi, uno degli assi portanti del film, una isotopia che lo percorre fino alla fine, fino al momento dello scontro finale, della resa dei conti tra luce e ombra, tra Powell e Rachel, resa dei conti che è anche smascheramento e abbandono di ogni illusoria opposizione tra una supposta pienezza della luce e una speculare e totale negatività dell’ombra.
Questo invece è Roger Ebert, che non ha bisogno di presentazioni:
The shot of Winters at the bottom of the river is one of several remarkable images in the movie, which was photographed in black and white by Stanley Cortez, who shot Welles’ The Magnificent Ambersons, and once observed he was “always chosen to shoot weird things.” He shot few weirder than here, where one frightening composition shows a street lamp casting Mitchum’s terrifying shadow on the walls of the children’s bedroom. The basement sequence combines terror and humor, as when the Preacher tries to chase the children up the stairs, only to trip, fall, recover, lunge and catch his fingers in the door. And the masterful nighttime river sequence uses giant foregrounds of natural details, like frogs and spider webs, to underline a kind of biblical progression as the children drift to eventual safety.
The screenplay, based on a novel by Davis Grubb, is credited to James Agee, one of the icons of American film writing and criticism, then in the final throes of alcoholism. Laughton’s widow, Elsa Lanchester, is adamant in her autobiography: “Charles finally had very little respect for Agee. And he hated the script, but he was inspired by his hatred.” She quotes the film’s producer, Paul Gregory: “. . . the script that was produced on the screen is no more James Agee’s . . . than I’m Marlene Dietrich.” Who wrote the final draft? Perhaps Laughton had a hand. Lanchester and Laughton both remembered that Mitchum was invaluable as a help in working with the two children, whom Laughton could not stand. But the final film is all Laughton’s, especially the dreamy, Bible-evoking final sequence, with Lillian Gish presiding over events like an avenging elderly angel.
Robert Mitchum is one of the great icons of the second half-century of cinema. Despite his sometimes scandalous off-screen reputation, despite his genial willingness to sign on to half-baked projects, he made a group of films that led David Thomson, in his Biographical Dictionary of Film, to ask, “How can I offer this hunk as one of the best actors in the movies?” And answer: “Since the war, no American actor has made more first-class films, in so many different moods.” “The Night of the Hunter,” he observes, represents “the only time in his career that Mitchum acted outside himself,” by which he means there is little of the Mitchum persona in the Preacher.
Mitchum is uncannily right for the role, with his long face, his gravel voice, and the silky tones of a snake-oil salesman. And Shelly Winters, all jitters and repressed sexual hysteria, is somehow convincing as she falls so prematurely into, and out of, his arms. The supporting actors are like a chattering gallery of Norman Rockwell archetypes, their lives centered on bake sales, soda fountains and gossip. The children, especially the little girl, look more odd than lovable, which helps the film move away from realism and into stylized nightmare. And Lillian Gish and Stanley Cortez quite deliberately, I think, composed that great shot of her which looks like nothing so much as Whistler’s mother holding a shotgun. Charles Laughton showed here that he had an original eye, and a taste for material that stretched the conventions of the movies. It is risky to combine horror and humor, and foolhardy to approach them through expressionism. For his first film, Laughton made a film like no other before or since, and with such confidence it seemed to draw on a lifetime of work. Critics were baffled by it, the public rejected it, and the studio had a much more expensive Mitchum picture (“Not as a Stranger”) it wanted to promote instead. But nobody who has seen The Night of the Hunter has forgotten it, or Mitchum’s voice coiling down those basement stairs: “Chillll . . . dren?”
E per completezza linguistica, ecco Damien Ziegler per il sito di cinefilia radicale DVD Classik:
Le film de Laughton va plus loin qu’un simple conte pour enfants porté par ses images oniriques. Il fait partie de ces œuvres qui exposent que la vérité de la nature se trouve à l’opposé de l’endroit où la majorité est certaine de la trouver. Laughton dit que l’espace n’existe pas là où les gens sont persuadés, qu’il n’existe rien de plus concret que la terre qu’ils foulent quotidiennement. Il expose que la dichotomie entre subjectivité et objectivité dans la perception est un leurre. Il le fait par des procédés techniques tout à fait simples. Lorsque les enfants courent le long de la rivière alors que Powell se trouve à leurs trousses, différents plans se succèdent par coupe franche, montrant les stries lumineuses du reflet lunaire sur l’eau. Les rayons lumineux n’en finissent pas d’apparaître de sorte que les enfants n’avancent pas. L’espace, conçu comme une surface comportant des points liés entre eux avec un parcours permettant de les rejoindre, n’existe pas. Il n’est qu’une convention permettant aux individus de disposer de points de repère commodes, mais se trouve dépourvu d’existence absolue. La Nuit du chasseur ne se contente pas sur ce chapitre d’exalter l’imagination des enfants qui vivent davantage que les adultes dans leur monde intérieur évanescent, il affirme une thèse de première importance afin de refonder notre philosophie de la perception. Le lecteur comparera le film avec le récent dessin animé Coraline, particulièrement l’épisode durant laquelle la fillette tente vainement de s’extraire du jardin alors qu’elle ne s’arrête jamais de marcher.
Quant à la dichotomie classique entre ce qui relève de la croyance personnelle et ce qui fait partie du fait scientifique, je me contenterai de relever le plan le plus important du film, sa clé de voûte formelle : celui qui présente John, vu de dos dans la grange, en train d’explorer l’horizon, la profondeur de champ venant trouver Powell évoluant au loin sur son cheval. L’expression du regard de John se traduit par les plans d’ensemble qui embrassent le plus d’espace de la séquence. Lorsque le réalisateur change le point de vue et cadre le garçon de dos, le champ de la caméra se trouve entravé par les parois de la grange. Le regard du narrateur omniscient, qui remplace alors celui de l’enfant, est davantage limité dans sa portée que celui de celui-ci. C’est habituellement le regard de l’individu isolé qui butte contre un obstacle, naturel ou artificiel, une fenêtre, les parois d’une grotte… Par ce jeu d’inversion sur les habitudes perceptives communément acceptées, La Nuit du chasseur conduit à réinventer le monde, à lui restaurer ses véritables attributs. Il le fait au moyen d’une forme contemplative, privilégiant un temps élastique, un espace exploré par la profondeur de champ et de nombreux plans de grand ensemble. Ces éléments formels s’harmonisent pour donner lieu aux moments cités par tous les amateurs du film : la découverte de Willa au fond de la rivière, le périple des enfants sur la rivière, la séquence de la grange précédemment évoquée.
Le film n’a pas connu de véritable descendance qui dépasserait la simple citation. Tout au-plus comporte-t-il une sorte de frère jumeau contemporain avec Les Contrebandiers de Moonfleet, qui a connu la même fortune critique après avoir été dans un premier temps mal distribué par son studio. A une époque où Gus van Sant remet Psychose au goût du jour, une nouvelle version est-elle souhaitable ? Si Grubb aurait accueilli le projet à bras ouverts, le seul fait de produire un film davantage conforme au livre possède peu d’intérêt une fois définitivement assimilé que ces deux arts, littéraire et cinématographique, possèdent des grammaires et des vertus si différentes que vouloir les faire communiquer à tout prix ne possède pas grand sens. Un projet plus valorisant serait de donner à Cortez ce qu’il souhaitait dès le départ : une technologie suffisante pour tourner le film en couleurs pastel. Si les possibilités du noir et blanc sont employés dans toute leur étendue dans la gestion des contrastes, le travail sur la couleur représente un autre défi, celui de rendre expressive une couleur qu’on ne remarque plus dans la plupart des films tant elle est un acquis pour la majorité. Il suffit de songer au prologue du Chevalier des sables et ses sous-bois de rêve vus par un enfant pour contempler le résultat donné par l’association entre un metteur en scène sensible et un chef opérateur de premier ordre, respectivement Vincente Minnelli et Milton Krasner. Renouer avec cet âge d’or de la couleur, non pour le dupliquer mais pour lui succéder, pourrait être une possible issue du cinéma pour évoluer. L’évolution numérique permet déjà aux réalisateurs de livrer leurs visions les plus ambitieuses. Tim Burton a donné avec Sweeney Todd un film en couleurs évoquant fortement La Nuit du chasseur (le barbier fou et son amour des lames évoque déjà largement Harry Powell) : la pénombre dans laquelle baigne le film tire le film vers la voie de la monochromie de la peinture chinoise. Un véritable défi serait d’oser des couleurs plus franches pour échapper à l’association trop évidente entre clair obscur et film noir. L’appel est lancé.