Da qualche ora in decine di sale italiane è tornato il più strano, tenebroso, affascinante e imprendibile film che Hollywood abbia messo in cantiere negli anni Cinquanta. Diretto da Charles Laughton, La morte corre sul fiume riconquista il grande schermo che gli si deve per gustarne bianchi, neri, grigi, ombre, tagli di luce, buio e baluginii. Qui a seguire un’antologia critica del film.
Una tale sceneggiatura non è di quelle con le quali si può inaugurare una carriera di regista hollywoodiano e si può ben scommettere che questo film, realizzato nel disprezzo delle elementari norme commerciali, sarà l’unica esperienza di Charles Laughton, ed è un vero peccato. Un peccato, sì, perché malgrado i contrasti di stile, La morte corre sul fiume è un film di grande ricchezza di invenzioni che somiglia a un fatto di cronaca orrendo raccontato da dei bambini piccoli. Malgrado la bellezza della fotografia di Stanley Cortez, l’uomo che illuminò in modo tanto straordinario The Magnificent Ambersons, la regia oscilla tra il sentiero nordico e il sentiero tedesco, si attacca al volo al lampione espressionista dimenticandosi di passare per i chiodi piantati da Griffith.
(François Truffaut)
Si vede bene come il prodigio di La morte corre sul fiume stia nel poterne fare simultaneamente più letture divergenti. Se non ci si ferma all’enunciato della storia, Harry Powell è certamente il personaggio più vicino a noi, il solo davvero simpatico se lo si paragona alla mediocrità degli Spoon, alla stupidità di Judy e di Icey, all’attaccamento autoritario della vecchia, all’ostinazione dei bambini. Lo sentiamo bene a partire dal momento in cui comincia a perdere la partita, cioè esattamente quando la barca dei bambini gli sfugge. Allora un urlo di belva squarcia la notte: questo cacciatore è anche un perseguitato.
(Gérard Lenne)
Può sembrare strano definire come semplice e diretto lo stile di un film che usa ogni sorta di trucco apparentemente ‘artistico’. È vero che il film è estremamente stilizzato e non naturalistico; però, questa stilizzazione prende la forma di un assolutamente consapevole uso della semplicità e della naïveté. Una volta presa la decisione di esprimere tutto nel modo più semplice e diretto, non c’è più ostacolo ai trucchi che servono per raggiungere lo scopo. […] Questo deliberato uso di effetti cinematografici ‘primitivi’ e di un gusto figurativo apparentemente naïf – che ricorda talvolta la pittura ‘primitiva’ – è giustificato dal contenuto del soggetto di un film il cui effetto si basa in parte sulla nostra condivisione immaginaria delle esperienze dei bambini, e nel quale le forme di revivalismo religioso giocano un ruolo essenziale.
(Robin Wood)
C’è contraddizione tra la visione degli adulti e la visione dei bambini, e la scommessa sarebbe poco sostenibile se Laughton non avesse, con quello che bisogna davvero chiamare un colpo di genio, ritrovato l’unità del film a livello plastico. È la mansarda nella quale Judy Harper affronta Harry Powell a dare il tono: con la sua nudità, con la sua geometria, molto teatrale, essa diventa un luogo irreale dove gli scontri più violenti rimanderanno esclusivamente all’universo dell’incubo. Questo dettaglio, e molti altri ancora, ci ricordano che Laughton aveva recitato nel 1947 il Galileo di Brecht per la regia di Losey. È chiaro che qui non è il distanziamento a vincere bensì il fantastico, l’universo patetico e appassionato dell’infanzia. Ultimo paradosso: i principi di Brecht sono insieme applicati e rovesciati.
(Jacques Goimard)
È un esempio perfetto di quel cinema indipendente che con l’andare degli anni ha finirò per soppiantare Hollywood, nel cui ambito è stato tealizzato in un’epoca in cui questo genere ‘di scarto’ era all’indice. Attingendo alle profondità del fantastico quotidiano, approdando a momenti ai miti dell’eternità, costruisce un’opera decifrabile e al tempo stesso ineffabile, autenticamente americana, su un sottofondo universale: un’isola e una tappa, un accidente e una casualità, una evidenza e una sfida
(Robert Benayoun)
Ed ecco che arriva il film nel film, il secondo film della Morte corre sul fiume. Una specie di confluenza. Quella notte, al termine dell’inseguimento, queste persone si rassomigliano. La vecchia signora buona e severa insieme, folle ed efficace, questa piccola infanzia immacolata, questo dato immutabile dell’impunità. E questo padre uccisore di bambini, questo mangiatore di carne fresca, questa carogna vuota come un sacco vuoto. Eccoli tutti riuniti nel luogo della confluenza, questo spazio tra la casa della vecchia signora, il giardino che la circonda e la strada che passa di là. È in questo luogo del film che avviene quello che potrei chiamare il miracolo di La morte corre sul fiume.. Ciò che bruscamente si instaura tra queste persone è una relazione fino a quel momento impossibile da prevedere e che sfugge a ogni codificazione, a ogni analisi. Si tratta anzitutto di un comportamento inventato dalla vecchia signora e poi ripreso dal criminale. Queste persone, così diverse, hanno tutto a un tratto in comune questo: che prendono in mano il film e decidono della sua sorte, come se finalmente un autore si alza e libera il film, lo porta via nella libertà. Bruscamente, non si sa più cosa si vede, cosa si è visto. Tanto si è abituati a vedere sempre le stesse cose. Tutto a un tratto, le cose cambiano. Tutti gli elementi narrativi del film appaiono come delle false piste. Dove siamo? Dov’è il buono, il cattivo? Dov’è il crimine? Il film diventa senza moralità. Cessa di essere la favola classica di cinquant’anni di cinema americano. Non c’è un epilogo imposto, non abbiamo più alcuna indicazione sulla strada che il film prenderà.
(Marguerite Duras)
Invece di ‘sviluppare’ o di ‘approfondire’ le indicazioni dei testi, Laughton provvede, per così dire, ad ‘appiattirle’, a renderle stilizzate e bidimensionali come le illustrazioni di un libro di favole: la straordinaria fotografia di Stanley Cortez, un bianco e nero privo di prospettiva che schiaccia case e figure come ombre cinesi, risponde del resto a certi suggerimenti del romanzo, dove ‘la fredda luna d’estate’, vista dalla finestra della camera da letto di John, appare come ‘una moneta d’argento attaccata al vetro’, e l’assassino che insegue a cavallo le sue vittime cantando un salmo viene per così dire ‘miniaturizzato’ (“apparivano, uomo e cavallo, della grandezza di un giocattolo…”). Le parole stesse, di Grubb o di Agee, divengono semplici elementi del quadro, desemantizzati, virgolettati, dipinti come le lettere che compongono LOVE o HATE, amore o odio, sulle dita della destra e della sinistra di Powell.
(Guido Fink)
È banale l’affermazione che ogni grande film contiene nella sua forma o nel suo proposito una riflessione sul cinema. Attraverso l’intermediario del piccolo John, La morte corre sul fiume illustra un paradosso comune all’universo del sogno e a quello del cinema (non per nulla Agee era critico cinematografico): come identificarsi con un personaggio e al tempo stesso osservarlo, problema che la teoria brechtiana ha risolto soltanto in parte. Ogni gesto, ogni azione descritta nel film è subito seguita dalla reazione che essa provoca, che la rafforza o la contraddice, che le dà insomma il suo interesse e la sua significazione: in La morte corre sul fiume, nessun personaggio è mai solo, o quando lo è deve fare come se non lo fosse. La battaglia tra la mano chiamata AMORE e la mano chiamata ODIO non esprime né la filosofia di vita del predicatore, né il suo cinismo, neppure la sua ipocrisia; esprime semplicemente, in maniera esacerbata, il modo in cui egli viene visto dagli altri (“Non ho mai sentito niente di più bello”, esclama Icey); e in tutte le sequenze in cui sono soli, i personaggi si sentono obbligati a parlare con un essere fittizio che essi pensano li osservi (Dio per il predicatore e la vecchia Rachel, e per lo zio Birdie il ritratto della moglie morta). I muri hanno orecchie e anche occhi: la celebre sequenza in cui i bambini sulla barca sono osservati da conigli, rane e uccelli notturni sarà d’altronde giudiziosamente ripresa, nello stesso senso, da De Palma in Blow Out.
(Yann Tobin)
L’elemento comico non c’è nel romanzo; è una aggiunta introdotta da Laughton. Gli spettatori sono incerti sul come rispondere a questo tono farsesco, a una confusione che crea disorientamento. Certo, la ‘voce’ del film è costantemente in movimento, oscillando dal realismo all’espressionismo, dall’orrore alla farsa, dalla minaccia alla speranza, dall’amore all’odio, in una complessa mescolanza che sembra, in realtà, rappresentare il diffuso stato d’animo della società americana dell’epoca. Non c’è dubbio che questo instabile miscuglio di elementi contrapposti spieghi le reazioni non entusiaste del pubblico alla prima uscita del film. Questo stesso miscuglio spiega il senso della ammirazione degli spettatori di oggi. Le falangi delle dita del Pastore ricamate con i tatuaggi LOVE e HATE simboleggiano perfettamente questa disturbante mescolanza di contrari.
(Moylan C. Mills)
Questo film misterioso affonda senza dubbio le sue radici nella soggettività dei suoi autori; si tratta anzitutto di un’opera di forza e bellezza poetiche assai rare nell’arte cinematografica classica, e che lascia poca presa all’analisi razionale e alla spiegazione oggettiva. Eppure, fin dall’inizio disponiamo di indizi ben poco innocenti: tre inquadrature introduttive che sembrano indicare altrettante chiavi, altrettanti sistemi simbolici rivelatori di quelli che potrebbero essere il proposito e il senso del film, al di là del suo intrigo di thriller orrorifico. Anzitutto, mentre scorrono i titoli di testa sullo sfondo di un cielo stellato, un invisibile coro di bambini intona una ninna nanna di cui si comprenderà molto presto l’ironia. Sotto la vernice di un racconto morale per bambini dai nervi saldi, La morte corre sul fiume è in realtà, nella sua essenza, un film noir, un film crepuscolare che trascina lo spettatore in una notte fantasmatica popolata dal più terribile degli incubi: quello in cui si vede realizzarsi la morte del padre e il suo corollario, la fine dell’infanzia.
(Charles Tatum Jr)
Laughton non intende restare prigioniero di uno stile, di una scrittura univoca. Ma questa molteplicità è meno anarchica di quel che sembra. La fotografia, per esempio, oppone degli esterni luminosi a un irrealismo ricostruito in studio ma conserva la stessa tonalità fredda. Soltanto l’ultima scena è illuminata in modo diverso. Allo stesso modo, i cambiamenti estetici corrispondono a cambiamenti dei punti di vista, a seconda che questo o quel personaggio sia messo a confronto con un altro: Shelley Winters quando è con i suoi bambini è ripresa in maniera realistica; quando è sola con Mitchum, la luce e l’inquadratura sono molto più drammatizzate. Stessa cosa per John a seconda che sia con il capitano, la sorellina o il pastore. I ‘cedimenti nell’andamento drammatico’ che allora deploravamo sembrano essere il prezzo quasi inevitabile di ambizioni così grandi. Curiosamente, visione dopo visione, non li si nota mai nello stesso punto, senza dubbio perché un film come questo non può che suscitare reazioni soggettive, scatenare un processo emozionale che vi farà accettare o rifiutare alcune immagini (la discesa del fiume provoca ora irritazione ora ammirazione). Queste reazioni non cancellano in nulla la forza e l’impatto del film.
(Bertrand Tavernier, Jean-Pierre Coursodon)
È soprattutto dal punto di vista plastico che il film è sorprendente. Esso deve molto al lavoro dell’operatore Stanley Cortez. Le scenografie di ispirazione gotica ed espressionista evocano anche l’universo scandinavo e quello di Dreyer in particolare. Gli interni (ricostruiti in studio) hanno in comune una qualità composita di irrealtà – o di surrealtà – che dà al film la sua bizzarra coerenza. Oltre ogni razionalità, il racconto è punteggiato di immagini e sceneindimenticabili: il cadavere di Shelley Winters sott’acqua, l’inno cantato a due voci di notte da Lillian Gish seduta sulla veranda col fucile sulle ginocchia e Mitchum che la spia nel giardino.
(Jacques Lourcelles)