Nella House of Gucci di Ridley Scott non c’è traccia di realtà. L’ultimo film del regista inglese è il prodotto di un falsificante turismo culturale, una lente d’ingrandimento a forma di H(ollywood) che non si limita a scrutare la cronaca, ma la distorce a piacimento. Caricaturale, sgradevole, ma pure divertente e rivelatorio, perché espressione di una visione così sfacciatamente spettacolare che è difficile resistervi. Come il recente Last Duel, rilettura femminista del costume drama medievale, House of Gucci si rivela essere un’altra moderna operazione di riassestamento del cinema classico, che modella la verità storica nel margine in cui può farne intrattenimento per il pubblico di oggi.

Anche la parabola di Maurizio Gucci e Patrizia Reggiani è, in fondo, un dramma in costume, una parata di maschere e di personaggi deformati dai propri desideri impossibili. Come da tradizione hollywoodiana, la partita si gioca sui volti e sulle bocche di un cast stellare tutto preso dalla propria simulazione linguistica. Ma l’italianità è una maschera anch’essa, un taglio letterario che sfregia la serietà dei protagonisti e li trasfigura nel ridicolo; il ricorso a un fintissimo accento italo-americano, per sua natura deformante, è perfettamente in linea con questa visione.

Della grigia fabbrica-Gucci dalle uova d’oro i protagonisti sono tutti schiavi: lo è il Maurizio imbambolato di Adam Driver, come anche il sornione zio Aldo di Al Pacino e suo figlio Paolo, isterico giullare interpretato da un Jared Leto a dir poco buffonesco. La storia di una famiglia di pagliacci, macchiette italiote in diversa misura perse nella propria corsa all’amore e al potere – che in questo universo carnevalesco sono, forse, la stessa cosa.

Si è parlato di trash, cattivo gusto, ma anche di camp, cioè di kitsch estremo e ricercato. House of Gucci, però, non si limita a un semplice esercizio di camp cinematografico. È un film che flirta con questa idea di esasperazione e di liberazione delle forme, e la drammatizza fra le righe della sua struttura didascalica da film biografico. Lungi dal ridurre la storia degli amanti tragici a un semplice fatto di cronaca, Scott usa la farsa pop per minare le rigide architetture hollywoodiane da cui il film è sorretto: la scelta di farne protagonista Lady Gaga, lei sì un vero e proprio oggetto di costruzione esplosiva dell’immagine, è il culmine massimo di una visione ambivalente, classica e aggiornata al tempo stesso.

Il film si gioca tutto su questa contraddizione, alternando battibecchi verbosi e violente ellissi, dilungandosi e stringendosi all’occasione. Ma la ricerca esasperata del kitsch è quasi sempre momentanea, stretta dentro le singole scene e gli innumerevoli raccordi musicali; non intacca mai l’architrave del film, che procede greve e lineare fino a soccombere sotto il peso della pachidermica ossatura da biopic.

Davanti all’incandescenza della sua interprete principale, però, è impossibile far finta di nulla. Gaga non è un’interprete sofisticata, ma vive e presenzia dentro il racconto come poche sanno fare: una soap opera compressa in un metro e cinquanta di altezza che surclassa il grigiore delle scene con il suo tailleur rosa e un battito di ciglia finte. In questa performance caciarona c’è tutta la tragicità di Patrizia, acrobata del serio-faceto, comparsa da spettacolo di varietà che aspira al protagonismo dell’opera lirica: il suo è un atto di ribellione contro un patriarcato biografico che è cinereo, sterile, inconcludente.

In un’annata cinematografica tutta proiettata sulla corporeità dei suoi protagonisti, la silhouette di Gaga si impone come la forza incendiaria di una pellicola altrimenti algida, un melodramma sottozero che cerca nella sua protagonista il fuoco per sciogliere il proprio ghiaccio. Meritava un film tutto per sé, questa Patrizia, meno cerebrale e più di pancia, in grado di tenere testa all’animo venale della sua interprete. Per Gaga, però, si può anche chiudere un occhio. “Potete chiamarmi signora Gucci” dice alla fine: di questo circo irrisolto è lei la tragica, sproporzionata e memorabile domatrice.