Nel cinema di Desplechin l’anarchia orale abita le immagini di cui si compongono le sue opere, da La vie des morts a Tromperie. In quest’ultimo film il regista francese filma l’amour-passion prendendo a prestito l’autobiografismo narrativo di Philip Roth e collocando lo scrittore americano nello spartiacque antropologico che aveva opposto, per secoli, l’amore-passione al sentimento coniugale. Da questo lascito, il regista francese fa scaturire un incalzante roman in cui le parole materializzano la “guerra d’amore” che eleva l’inganno a una weltanschauung occidentale: un destino fatale per l’Europa che ama e tradisce, che si scontra con la paura della morte e della malattia, che fa i conti con l’ebraismo e le nevrosi borghesi.

Tutto ha inizio con una figura femminile (Léa Seydoux) ripresa in lontananza in un teatro di posa abbandonato che, palesandosi dinanzi a noi spettatori, decide di non rivelare il suo nome. Rispetto a Re e regina (2004), in cui Nora irrompe sulla scena presentandosi, per l’amante inglese di Philip, sofisticata e colma di erudizione, l’identità non è importante, perché la vita non è che una catena di mots e libido sfrenata, un corteo di maschere pirandelliane, colori sbiaditi e lacrime. Dentro lo specchio in cui si guarda, nessun trompe-l’oeil magrittiano, solo un viso imbellettato che si offre godardianamente alla macchina da presa. L’affresco umano in interni, mai immune da suggestioni pittoriche e pose stilose, utilizza un inganno sottile, attraverso le parole incantatorie della donna che si rivolge agli spettatori in modo suadente e compiaciuto: la prospettiva straniante è un vortice di discorsi che si emancipano dalle immagini, proliferando di vita propria.    

L’inganno, fil rouge del cinema dell’auteur, ha il potere di rendere icastico il visibile, dipinto nella sensualità luminosa di Léa Seydoux o materializzato negli interni in cui si accende il tourbillon de vie, mentre ciò che si narra, sul matrimonio e il desiderio, la cultura ebraica, la malattia patologica e quella esistenziale, scompagina le vite dei protagonisti come un movimento incessante che inverte e confonde presente e passato, realtà e immaginazione. Espressione di un cinema della diversione sentimentale, Tromperie è un atto concettuale che si “volge altrove”, che confonde i piani dialettici e di rappresentazione del reale, che elegge il disordine a cifra simbolica di un nuovo esistenzialismo contemporaneo dominato dalla dissonanza emotiva e dalla disgregazione sociale.

Desplechin sembra aver messo in pratica l’idea che Truffaut esprimeva nel 1957 sul “film di domani”, nel suo sprezzante articolo Le cinéma français créve sous les fausses légendes che sosteneva l’impellenza di un nuovo modo di fare cinema, ancora più personale, individuale, autobiografico di un romanzo, come una confessione, un diario, un atto d’amore. Dagli orrori genealogici dei suoi precedenti racconti familiari, il regista scandaglia i recessi della scrittura intima di Philip Roth, componendo una sarabanda di dialoghi in cui le donne dello scrittore si raccontano attraverso un’inesorabile ipnosi verbale al quale ci si abbandona come fosse una sacrale confessione sulla vita e sull’amore.