House of Gucci: il film dell’eccesso. Fin da molto prima della sua uscita e della pubblicazione di scatti dal set da Milano a Cortina, teaser e trailer, appariva ben chiara l’intenzione di Ridley Scott di confezionare un prodotto patinato, farcito di un cast stellare esclusivamente d’oltreoceano, infiocchettato grossolanamente, pronto per essere scartato in due ore e mezza. L’aspetto formale del film conferma ciò che si sospettava. Decisamente estremizzato verso la pacchianeria, volto a una certa fissazione quasi maniacale per l’esasperazione e l’ostentazione del lusso, di ville, accenti italiani, pane fresco e belle macchine. E qui la domanda sorge spontanea: far tendere al “troppo” una vicenda che coinvolge moda, giallo, tragedia e componente biografica è stata un’operazione così sbagliata?

Dal punto di vista della preparazione al ruolo e della resa interpretativa di Lady Gaga nei panni di Patrizia Reggiani, il segno è stato centrato. D’altronde, confrontando con filmati di repertorio e fonti dell’epoca, si può dire che Reggiani fosse sul serio, a suo modo, caricaturale, rozza e caciarona, ma pur sempre di Gucci vestita. Con una Gaga molto in forma, al suo secondo ruolo drammatico da protagonista, l’aderenza del personaggio alla realtà, nel complesso, è stata rispettata, così come per l’Aldo Gucci à la zio d’America di Al Pacino e per il garbato Rodolfo Gucci di Jeremy Irons (non si può dire lo stesso del Paolo Gucci di Jared Leto, forse una delle prove d’attore peggiori della carriera di quest’ultimo); ricalca perfettamente una sottospecie di “Cenerentola” fasciata di un abito leopardato e dotata di occhiali fumé che cavalca l’onda dell’ascesa al denaro, manipolando con ogni metodo di sfrontatezza e seduzione il carattere debole del rampollo maschio di casa Gucci, Maurizio, sopraffatto dalla timidezza e dalle responsabilità “famigliari” più grandi di lui.

I fiumi di soldi e soprattutto il potere che ne deriva si vedono tutti (una su tante, la scena delle borse contraffatte che rappresentano un non-problema, poiché generano comunque profitto, purché se ne parli), camuffati da azioni, querele, contratti e vendite da nove zeri che fanno girare la grande macchina dell’azienda di famiglia since 1921 che si inceppa sul finire degli anni Ottanta fino a rischiare la bancarotta. Gli anni del rapporto (più morboso che amoroso) tra Reggiani e Gucci vengono quindi intervallati di tanto in tanto dagli intrecci delle ben note faide famigliari per la contesa dello scettro del marchio.

L’esplosione dei gloriosi anni Novanta, come si nota purtroppo molto brevemente nel film, è il sinonimo dell’ondata di sperimentazione da parte dei più noti nomi della moda internazionale: l’apice del genio di Gianni Versace, l’iconico anticonformismo di Vivienne Westwood, i primi veri riconoscimenti internazionali a Dolce&Gabbana, il reboot dei pezzi di Chanel made by Karl Lagerfeld. Anche Gucci va incontro a un sostanziale rinnovamento, grazie all’arrivo in azienda dell’enfant prodige Tom Ford: con la collezione Porno Chic Revival, Ford, la stylist Carine Roitfield e il fotografo Mario Testino rilanciano completamente l’immagine del marchio. Da un lato, la moda al massimo della creatività, l’alba di un nuovo fruttuoso inizio, dall’altro tutti i piani della Reggiani per continuare a interferire negli affari del marito naufragano per sempre: in pochi anni si consuma ciò che rimane di una Patrizia Reggiani imbolsita e fuori di sé, fino al concretizzarsi dell’estremo gesto.

Ci si chiedeva all’inizio se il proiettarsi verso una rielaborazione tutto sommato volgare di una delle tante vicissitudini a sfondo crime che macchiarono le cronache dell’epoca fosse un escamotage poco efficiente. Si ha l’impressione che House of Gucci voglia riproporre una lettura pop-satirica di un certo modo di vivere una vita (per pochi) impregnata di comportamenti e personaggi eccentrici, a tratti macchiettistici e in altri casi leggeri e senza riserve; è un lungometraggio che poteva fare a meno di certi errori/orrori (ripetiamo lo scivolone di Jared Leto), di dialoghi contraddittori e inesattezze spazio-temporali, ma la cui potenzialità sta nel definirlo “troppo”. Purché se ne parli, appunto.