Dopo innumerevoli peripezie produttive il danese Carl T. Dreyer proiettò per la prima volta in pubblico La passione di Giovanna d’Arco nel 1928 al Cinema Palads Teatret di Copenaghen. Sarà l'unica volta che il film verrà proiettato nella sua versione originale non censurata. La distribuzione in Francia subì dei ritardi a causa dell'ostruzionismo di alcuni nazionalisti, che contestavano il fatto che Dreyer non fosse né cattolico né francese. In seguito il negativo originale andò perduto in un incendio agli UFA studios di Berlino, Dreyer riuscì a montarne una nuova versione utilizzando scene alternative mai proiettate, ma anch'essa andò distrutta in un secondo incendio nel 1929 ai laboratori della G.M. a Boulogne-Billancourt. Così per un quarantennio fu difficile trovare copie della versione originale e della seconda versione. Solo nel 1981 fu ritrovata, nella sede di un istituto psichiatrico di Oslo, una copia del negativo originale con didascalie in danese andato perduto nell'incendio a Berlino, cioè la prima versione non censurata. Queste vicende fanno di Giovanna d’Arco, capolavoro indiscusso del cinema muto, un film dalla ricostruzione e restauro tra i più travagliati d’ogni tempo: infine restaurato nel 2015 da Gaumont, con il sostegno di CNC.

Composto da primi piani corti e taglienti, “labbra urlanti o sogghigni sdentati come tagliati nella massa del volto”, La passione di Giovanna d’Arco, scriveva Deleuze (la cui lezione sul film è intramontabile e sempre attuale) “è un film quasi esclusivamente affettivo”, costruito su un tipo di montaggio ed inquadrature cosiddetti “di affezione”, inquadrature che sono quasi unicamente dei primi o primissimi piani. L’affetto è qui inteso come entità spirituale complessa: Giovanna, la pulzella d'Orléans, analfabeta e ribelle è colta nella sua Passione più che nel processo, nella sua essenza di martire e vittima di una Chiesa che, più che accogliere, punisce chi si distacca troppo da certi canoni estetici e sociali. Una delle accuse che torna più frequente nel processo costruito faziosamente contro l’eroina a capo della riscossa francese durante la guerra dei Cent'anni è quella di aver osato vestire panni maschili. Ragione per cui Giovanna d’Arco assurgerà anche a simbolo femminista di ribellione a canoni stabiliti.

Nel film di Dreyer “la passione è espressa in modo estatico” e si dichiara attraverso il volto di Renée Falconetti (Giovanna) preso in ostaggio dalla cinepresa, mentre affronta e supera il limite di ciò che l’uomo può sopportare per amore di Dio. Ma spesso anche il volto di Giovanna è respinto nella parte inferiore dello schermo, “tanto che il primo piano porta con sé un frammento di scena bianco, una zona vuota, uno spazio di cielo a cui ella attinge una ispirazione”. I primi piani di Giovanna dialogano continuamente con ciò che resta fuori dal quadro, con il fuori campo che è reso protagonista e designa ciò che è altrove, una presenza “inquietante” al di fuori dello spazio e del tempo. Evitando la successione campo-controcampo, che manterrebbe il rapporto reale di un volto con l’altro, Dreyer isola ogni volto in un primo piano e “sopprimendo la prospettiva atmosferica” fa trionfare una prospettiva temporale e spirituale, riduce lo spazio a due dimensioni e lo mette in relazione con il Tempo e lo Spirito. L’insistenza di Dreyer sul volto di Giovanna porta ad una maggiorazione estetica della realtà che finisce per trasfigurarne il viso nella direzione di un perfetto ascetismo. 

Se consideriamo le immagini di Dreyer come inquadrature basate su un sistema chiuso, ancora di più il fuori campo ha la funzione di introdurre ciò che è fuori dallo spazio apparente e dal tempo. Per Dreyer diventa un esercizio quasi ascetico “più l’immagine è spazialmente chiusa ridotta a due dimensioni più essa è atta ad aprirsi su una quarta dimensione che è il tempo e su una quinta dimensione che è lo Spirito, la decisione spirituale di Giovanna”, ossia la scelta del rogo, piuttosto che l’abiura, il martirio come vittoria e la morte come liberazione.

Se è vero che l’inquadratura è l’arte di scegliere cosa entra in un insieme, il sistema chiuso individuato dal quadro di Dreyer è un sistema ottico determinato dal punto di vista scelto (quello dal basso), dall’angolo dell’inquadratura (spesso obliquo) ed è capace di definire un fuori campo insistente ed assillante. Che cosa guarda Giovanna? A chi rivolge lo sguardo? Al cielo, a Dio. Il quadro di Dreyer risulta così una “composizione dello spazio in parallele e diagonali”, “Dreyer esplora le linee orizzontali e verticali, le simmetrie, l’alto e il basso, le alternanze di bianco e nero”.

E ancora, nel quadro ci sono molti quadri differenti, le persone non sono inquadrate come le cose, gli individui non come le folle, le porte le finestre le sbarre della prigione di Giovanna diventano un quadro nel quadro, reminiscenza di un’ottica espressionista. “Il quadro si riferisce ad un angolo d’inquadratura”, il punto di vista può essere insolito, particolare, paradossale, in Dreyer può essere rasoterra (spesso) o dall’alto al basso o invertito (le flotte di soldati a testa in giù nello specchio d’acqua) o le folle di popolo in rivolta viste sotto sopra.

Qualcuno parlò in tal senso di “disinquadratura” per designare questi punti di vista anomali che vogliono rinviare ad un’altra dimensione dell'immagine, e che trovano espressione nei “quadri taglienti di Dreyer”. Così come taglienti sono anche le fisionomie scelte per raffigurare il male, la corruzione, la minaccia del potere costituito, i volti rugosi e arcigni del vescovo e dei giudici inglesi contrapposti al candore e all’innocenza della pallida diciannovenne, in stato di Grazia divina.

Attraverso questa prospettiva ascetica Dreyer fu capace di immortalare il mistero della fede e dell'amore, ma anche uno dei migliori frutti della riflessione sul volto umano, inaugurando la cosiddetta “teoria della fotogenia”.