C’è un gruppo di bruti, facce cattive e coltello facile. E c’è E.S., un signore che forse la cattiveria non l’ha mai esercitata. Lo scontro pare imminente, E.S. è convinto che quel manipolo di mentecatti voglia aggredire proprio lui e quindi si prepara al peggio, chiude gli occhi, è pronto a subire. Quando i bruti arrivano, ecco che superano E.S.: lo ignorano, passano avanti, non si accorgono di lui. Il loro obiettivo è altrove. Questo è il Paradiso? No, certo. Perché da qui parte il viaggio di E.S.: lontano dalla Palestina, prima rotta Parigi e poi New York.
E.S. è Elia Suleiman. Un nome, va da sé, indicativo. Le iniziali, ovvio. Ma Freud si nasconde dietro i puntini. Autore e attore, corpo di un cinema fondato su se stesso, Suleiman ha fatto trascorrere dieci anni dalla ricognizione personale in chiave d’autofiction Il tempo che ci rimane, con un corto per il collettivo 7 Days in Havana a interrompere il silenzio nel 2012. Nella struttura in apparenza frammentaria di Il paradiso probabilmente, il tema del concetto di patria si pone quale cardine di una riflessione politica e privata in cui lo straniamento della maschera di Suleiman è una chiave d’accesso al limbo tra (non)vita e post-mortem. Un po’ Jacques Tati, un po’ Buster Keaton. Muto e immoto, sguardo in macchina, outfit sempre uguale, flâneur che all’azione fisica del movimento oppone – anzi: applica – l’espressione passiva, è il testimone di un mondo sfuggente e inquieto, sonda l’emerso per intercettare il sommerso, cerca in ciò che non comprende la possibilità di ritrovare un orizzonte perduto.
Quasi seguendo l’ipotesi di una cover di Playtime, Suleiman esplora luoghi che costituiscono gli spazi di una città non-ideale, dove i poliziotti prendono le misure dei dehors, personale sanitario serve pasti a clochard senza prestare attenzione al fattore umano e il capitale vorrebbe plasmare l’artista al canone dominante. L’ossessione del controllo, la fiducia nella paura, il bisogno di addomesticare il perturbante. In fondo, le sortite di Suleiman rappresentano l’occasione di rimettere in discussione le nostre convinzioni su pezzi di mondo periferico che tendiamo a “ridurre” alle notizie filtrate dalla stampa o da una sommaria quanto superficiale conoscenza della geopolitica. Come se, al di là del film, Suleiman ci stesse aprendo gli occhi sulla nostra visione parziale della Palestina, con la natia Nazareth quale epicentro di una recherche impossibile.
Gira che ti rigira, il mondo pare schiacciato e oppresso come la strada invasa dal carro armato gigante: nessun posto è più bello di casa mia, nessun mare sarà come quello che inonda il cuore. Ogni passaggio è una presa di posizione, ogni atto è un atto politico e il movimento interno è dettato da una coreografia che segue il ritmo della commedia. Ma, nel suo librarsi leggiadro nei confini di un discontinuo teatro surreale, Il paradiso probabilmente sembra un po’ troppo impegnato a controllare e definire i confini dell’allegoria per abbandonarsi davvero a quello spiazzante spaesamento e un attimo dopo dolente che costituisce la differenza, lo scarto, la dote di un autore prezioso.