Servono poco più di 20 minuti a Jean Renoir per rivelare La regola del gioco.
Octave, interpretato da Renoir stesso, rivela al marchese de La Chesnaye che la cosa terribile di questo mondo è che ognuno ha le proprie ragioni. È una confidenza che folgora una scena apparentemente innocua in una fase del film in cui il regista francese è alle prese con la costruzione della credibilità del mondo borghese in cui vuole farci entrare. Sedersi al tavolo senza essere adeguatamente preparati o accettarne i meccanismi può risultare fatale, un po’ come accaduto al pubblico che ebbe la (s)fortuna di guardarlo nelle sale nel 1939. Su trentasette recensioni contemporanee all’uscita, quattordici erano ostili, sei ambivalenti, sei favorevoli con riserve e cinque quasi del tutto favorevoli. Messi di fronte ad una verità demistificata, talmente candida da essere bruciante, i critici e gli spettatori non accettarono di vedere il mondo a cui avevano tacitamente aderito privato di una incosciente edulcorazione.

“Si parte da ciò che ci circonda per arrivare all’io” ricordava nelle sue memorie Renoir, non come vezzo ma come intento programmatico. Pur avendo un’idea e una sceneggiatura, pur lavorando con meticolosità sulle inquadrature e la composizione dell’immagine, il regista parigino rinchiude un campionario della società francese in una magione di campagna e vi inserisce una verità incontrovertibile. Si trasforma così in una sorta di piccolo chimico, pronto ad osservare nella sua capsula di Petri il comportamento dei reagenti al cospetto di un elemento così potente.

Gaston Modot sottolineava nel 1949 su un numero della rivista Ciné Club che Renoir in La regola del gioco, “lavora come un pittore, in intimo contatto con il motivo. Vi si imbosca con i suoi interpreti”. In questo modo prima che si tengano le riprese, dispone i suoi attori secondo il ruolo pensato per loro, gettandoli nella fossa dei leoni. Loro ne riemergono completamente immutati e imbevuti dello spirito della storia di cui sono momentaneamente alfieri, non più simulacri ma specialisti dei rispettivi personaggi. Si realizza allora un’improvvisazione organizzata che si nutre di sceneggiatura e scenografia per rivelare il senso profondo del gioco. La coralità non è soltanto una scelta, ma una necessità espressiva per coprire quanta più superfice possibile e tendere all’universalità.

Cosa può aver spinto il pubblico del 1939 a denigrare un film che tra il 1959 e il 1965 ottenne un successo incredibile guadagnando lo status canonico che non avrebbe mai perso all’interno della storia del cinema? Forse ha a che fare con il potere della sua disamina socio culturale nascosta con sapiente leggerezza e con le molteplici implicazioni tematiche che hanno scandalizzato molti dei suoi primi spettatori ma aperto la strada a discussioni complesse in una società alla ricerca di sé stessa dopo la seconda guerra mondiale.

Non bisogna dimenticare, però, una padronanza tecnica e formale ammirata da André Bazin prima e Orson Welles poi, senza tralasciare qualsiasi regista cronologicamente successivo che si sia confrontato con la profondità di campo. Inquadrature che come fasci di luce rendono vivi tutti gli angoli del campo di ripresa, non lasciando nulla di inesplorato, come testimoniato dalla splendida versione restaurata. L’unico modo, in effetti, per rivelare a tutti le ragioni che ci contraddistinguono come esseri umani.