Se andiamo indietro di circa un anno, ricordiamo bene che la platea di Cannes rimase scioccata da film come Benedetta e Titane (poi vincitore della Palma d’Oro): film scandalosi, coraggiosi, estremi, a metà strada fra l’autorialità e il “genere”, che ribadiscono come nei Festival ci sia da un po’ di tempo aria di cambiamento. E di questo ne abbiamo trovato conferma anche alla Mostra di Venezia dello stesso 2021, dove nella sezione Biennale College (dedicata agli autori emergenti) è stato presentato un film italiano che forse alcuni anni fa sarebbe stato impensabile portare in Laguna: La santa piccola (2021), diretto da Silvia Brunelli, una regista che è cresciuta a pane e cinema per poi debuttare con questo folgorante lungometraggio destinato a far discutere, soprattutto adesso che ha iniziato un meritato percorso nelle sale italiane (mentre continua la partecipazione ad altre prestigiose kermesse, come il Tribeca Film Festival).

Produce la Rain Dogs, ma fra i co-produttori troviamo anche la Minerva Pictures e la coppia Luna Gualano ed Emiliano Rubbi per La Zona (due autori di un cinema militante come il bellissimo horror politico Go home – A casa loro), mentre soggetto e sceneggiatura sono scritti dalla stessa Silvia Brunelli insieme a Francesca Scanu, sulla base di un racconto di Vincenzo Restivo.

La vicenda si svolge a Napoli ai nostri giorni, e ha come protagonisti due amici fraterni, Lino (Francesco Pellegrino) e Mario (Vincenzo Antonucci): abituati a una vita ai limiti dell’indigenza, vivono nei quartieri popolari e condividono praticamente tutto nella loro vita. La routine del rione è spezzata quando alla sorellina di Lino, Annaluce (Sophia Guastaferro), viene riconosciuto un miracolo, cioè aver fatto resuscitare una colomba, dopo che si era schiantata contro una statua della Madonna. A questo si aggiunge un secondo presunto miracolo, quando la bambina fa tornare il respiro alla madre di Lino, che stava per essere asfissiata dal gas. I due fatti suscitano uno scalpore clamoroso nel quartiere, a tal punto che Annaluce inizia ad essere venerata come una santa, con tanto di pellegrinaggi in casa, candele e offerte votive. La santificazione della piccola sconvolge pure la vita dei due scettici amici, il cui rapporto è messo in discussione anche dall’omosessualità di Mario, che sembra essersi innamorato di Lino.

La santa piccola – un altro film di ambientazione partenopea a Venezia78, oltre ai più celebri È stata la mano di Dio e Qui rido io  – sembra trovare piacere nel gusto di scandalizzare (ed era ora nel cinema italiano, viene da dire): del resto, come diceva Pier Paolo Pasolini, “scandalizzare è un diritto, essere scandalizzati è un piacere”, e la regista Silvia Brunelli sembra fare tesoro di questa massima, poiché proprio come Pasolini fa convivere il sacro e il profano, l’indagine mistica e la sessualità, inserendosi un po’ in quel solco del “sacro sporcato” che era stato tracciato anni fa da un altro autore coraggioso come Simone Scafidi, con Gli arcangeli.

L’opera prima di Silvia Brunelli meraviglia per le scene ardite, per i temi scabrosi e difficili, per la voglia di portare in scena un cinema con idee nuove, e stupisce per la freschezza e la naturalezza stilistica e narrativa con cui racconta questa strana vicenda, avvalendosi per lo più di attori non conosciuti e con una ridotta esperienza cinematografica, ma dai quali riesce a tirar fuori l’anima nelle interpretazioni, nelle espressioni dei volti e nei corpi.

Perché La santa piccola è un film strano, “altro”, un unicum non inquadrabile in un genere, puro cinema d’autore dove convivono dramma e commedia, grottesco ed erotismo. Il narrato si muove continuamente su più binari, che convogliano verso due estremi, così lontani eppure arditamente accostati: da una parte la dimensione religiosa, superstiziosa e mistica, e dall’altra la dimensione sessuale – etero e LGBT – destinata a un sentito coming out di Mario dopo un lungo percorso interiore. La vicenda è innanzitutto un’accurata indagine folkloristica sulla religione e la superstizione – che nel nostro film sono inscindibili – in cui convivono il gusto per il grottesco con una rappresentazione cinica e disincantata del misticismo.

Nella diegesi non è volutamente spiegato se ad Annaluce siano effettivamente attribuibili i miracoli come in un film religioso – la colomba poteva essere soltanto tramortita, e la madre di Lino (Pina Di Gennaro) solamente svenuta – ma è proprio questo il punto: La santa piccola mette alla berlina quel folklore religioso (e superstizioso) popolare che ha la mania di vedere santi e miracoli dappertutto, ed è anche un ironico ma feroce j’accuse verso la mercificazione della religione. La piccola Annaluce diventa suo malgrado un centro di pellegrinaggio, che la regia mostra sotto forma di esagerazioni come i regali, le candele, gli striscioni, le preghiere alla “santa piccola”, addirittura le immaginette della bambina, la quale viene sfruttata dalla madre per raccogliere soldi tramite le offerte.

Il film è ricco di iconografie religiose – in particolare la statua della Madonna che è al centro del quartiere, ma anche il prete (Gianfelice Imparato, versatile caratterista) e le processioni – figure alle quali si accosta l’iconica e sacrilega immagine della bambina inquadrata con l’estetica di una santa, come nelle sequenze finali dove cade in una sorta di trance mistica, indotta forse più dai condizionamenti esterni che non da un’autentica religiosità interiore.

Un ideale trait-d'union con l’altra tematica centrale del film, cioè la sessualità, possiamo individuarlo nella scena in cui Assia (Alessandra Mantice) – la fidanzata di Lino – perde sangue dal pube davanti alla statua della Madonna, primo sintomo di quell’aborto per cui aveva pregato Annaluce. Sacrilegio, verrebbe da dire. Ma il sacro e il profano sono continuamente mescolati (ai limiti di una voluta blasfemia), e l’intera storia vibra di una sessualità pulsante, la quale si esplica in sequenze sempre più forti, che non hanno probabilmente eguali nel cinema italiano contemporaneo. Prima in una discoteca, con le luci al neon in contrasto con l’illuminazione naturalistica dominante nel resto del film, quando i due protagonisti vengono abbordati da una donna matura (la conturbante Sara Ricci, vista più volte in serie-tv italiane), ai seni della quale si avvinghiano avidamente per proseguire con un petting spinto.

Poi ancora nel privé del locale notturno, nel buio illuminato da un triangolo al neon, dove un efebico ragazzo biondo pratica una fellatio a Lino – che è il maschio dominante in tutta la vicenda, e ribadisce con forza di non essere un “ricchione” – e all’amico. Il tutto è propedeutico alla scena-madre, quando i due amici fanno sesso sfrenato con la donna nella sua casa elegante: un ménage à trois dove Lino la possiede selvaggiamente da dietro, mentre lei pratica una fellatio a Mario, fino alla conclusione estatica in cui i due amici raggiungono l’orgasmo guardandosi in volto, mentre le inquadrature scrutano arditamente i tre corpi nudi con una forte tensione omoerotica fra i due ragazzi.

Ed è stupore: perché ormai il coming out oggi va quasi di moda, ma metterlo in scena come fa Silvia Brunelli, no, non è per niente conformista, bensì rivoluzionario. Più volte, nel corso del film, la regia inquadra gli sguardi e gli atteggiamenti di Mario – già segretamente innamorato – verso l’amico, i cui gusti sessuali sono a sua volta abbastanza “fluidi”, nonostante lui si sforzi di negarlo: come scrive Giorgia De Carolis su Nocturno Cinema, “mettere un corpo femminile tra di loro è l’unico modo accettabile di condividere la sessualità”. E l’appassionato bacio sulla bocca che Mario strappa a Lino è il coronamento di un percorso (un coming out) di cui siamo destinati a non conoscere la conclusione, poiché la Brunelli in seguito si concentra più sul rapporto di Lino con la sorella: la quale – dopo una sfuriata in cui lo scettico ragazzo rompe tutto (compresa la statua della Madonna) – esce dalla sua trance e sembra ritrovare una nuova serenità.

Anche esteticamente, La santa piccola è un gioiello purissimo, dove la fotografia di Sammy Paravan inquadra con colori caldi e naturalistici vari angoli di Napoli (le case rionali, i vicoli, il lungomare), per poi virare verso un neon in acido quasi refniano nelle scene all’interno dei night-club. E proprio l’uso delle luci al neon è centrale nell’iconografia del film, visto che è utilizzato tanto nei momenti profani (la discoteca coi corpi che si avvinghiano) quanto in quelli sacri (l’aureola della Madonna). Le inquadrature valorizzano soprattutto i corpi e i volti (bravissima anche la piccola ed esordiente Sophia Guastaferro, dal viso angelico), e meritano una menzione le musiche di Emiliano Rubbi ed Eugenio Vicedomini, soprattutto nell’amplesso a tre, dove le note assumono una solennità che sembrerebbe più adatta a qualcosa di aulico: ancora una volta sacro e profano, religione e sessualità si mescolano coraggiosamente e in maniera indissolubile.