Nel linguaggio della moda, con “shooting” s’intende un servizio fotografico di soggetti in posa. Il termine, tuttavia, può significare anche altro. Ha a che fare con lo sparare, il puntare, il colpire (al cuore). Per Benedetta Barzini, essere ripresa, fotografata, immortalata è una violenza. Lo dice lei, che a vent’anni finì sulla copertina di Vogue America diventando una delle top model più famose del mondo. Cinque anni ai massimi livelli, di quelli che valgono un’intera vita pubblica, che fanno conseguire benemerenze cittadine (“ma la bellezza non è un merito”), finché il combinato disposto tra l’incidenza dell’anagrafe e la paura di avere un futuro soltanto da “ex-modella” le ha permesso di voltare pagina. Eccola, allora, battagliera femminista trattata con sufficienza dai maschi, giornalista non conciliante, carismatica insegnante che interroga le allieve su questioni quali la perturbabilità che innesca l’imperfezione o il rifiuto della vecchiaia in quanto presagio di morte.

L’immagine, riflette, è un’invasione del privato che, non riuscendo a penetrare nell’intimità della persona, compie comunque il sopruso di trasfigurarla in una rappresentazione che non le appartiene ma corrisponde all’idea propagandata dal capitale. Pensiamo – spiega la professoressa Barzini – alle figure femminili diffuse dai media: associate all’armonia della natura perché non all’altezza della ragione delegata agli uomini, imprescindibilmente incaricate di esercitare il materno, corpi da desiderare. Beniamino Barrese, il regista di La scomparsa di mia madre, ha passato la vita a filmare la madre, Benedetta: sfidandola, provocandola, corteggiandola.

C’è un momento in cui il figlio recupera un video di vent’anni fa, allo specchio del bagno. Con uno stacco di montaggio, quasi passando nella stanza accanto, ecco la madre che balla divertita, compiaciuta dell’occhio sedotto dell’aspirante filmaker già affascinato dalla sua immagine così enigmatica. Un salto indietro nel tempo (“io odio la memoria”, sentenzia Benedetta verso il finale) per testimoniare l’origine di un’ossessione che ora è diventata un film. Presentato al Sundance 2019, nasce dal desiderio della protagonista di scomparire dal proprio mondo. Sarebbe troppo facile morire, congettura, scomparire è più complicato: non si tratta di fuggire lontano ma di “fare il contrario” della vita fatta fino a ora.

Fondato su una dialettica squilibrata, il documentario (di osservazione e di partecipazione) si edifica su due elementi in apparenza distanti eppure legatissimi: il primo è il conflitto tra lo sguardo innamorato di Barrese che pedina, cattura, invade il territorio e la presenza recalcitrante e contraddittoria di Barzini che insulta, ragiona, ammicca; e il secondo è l’amore, dove le facili suggestioni edipiche sono meno interessanti dei non-detti, chiave di lettura importante dal momento che Barzini vuole far emergere il valore del non-visibile inaccessibile all’obiettivo fotografico.

E così, benché continui a ribadire ostinatamente ostilità verso il progetto del figlio, il solo fatto di essersi concessa alle immagini raccolte, interpretate, manipolate del figlio è un atto d’amore sconfinato, al pari di tutte le scatole archiviate in cantina che contengono i frammenti di tutta una vita. Sfuggendo a qualsiasi definizione e intrecciando dentro il film possibili ipotesi di altri eventuali film (i casting per un immaginario biopic, le chiacchiere fuori campo tra Barzini e Lauren Hutton, le ricostruzioni impossibili della “scomparsa”…), La scomparsa di mia madre è un gioco al massacro e un gioco di ruolo, mobile e ribelle, a suo modo un caso esemplare di cosa si può fare nel e col documentario.