Siamo nel 1923 quando Germaine Dulac, pioniera del cinema muto e figura chiave nei circoli  femministi e anticlericali parigini dell’epoca, gira La Souriante Madame Beudet, considerato una pietra miliare della prima avanguardia francese, tratto da un’omonima opera teatrale  scritta da Denis Amiel e André Obey.

Madame Beudet (Germaine Dermoz) vive una noiosa esistenza di provincia al fianco di un grottesco marito (Alexandre Arquilliere) un mercante di stoffe, che la tiranneggia: aspirando alla libertà, si rifugia nel sogno e nel desiderio per sfuggire al grigiore della sua vita quotidiana.

L’anelito verso un fantasmagorico altrove realizzato tramite l’evasione servono alla Dulac per descrivere l’insofferenza alle norme borghesi (tratto peculiare di varie avanguardie): dare spazio al desiderio significa combattere contro schemi sociali ormai antiquati in supporto di una nuova identità femminile, pronta a emanciparsi dalle categorie sociali codificate dalla tradizione patriarcale.

E’ proprio Germaine Dulac a chiarire nella conferenza del 1924 su Les procédés espressifs du cinématographe (pubblicata in Cinémagazine) che per lei il cinema è una forma di militanza, un’ arte nuova e autonoma che serve a tradurre visivamente il pensiero e la vita interiore dei suoi personaggi. Ne è un fervido esempio la sequenza del film in cui Madame Beudet leggendo una rivista, immagina che un aitante campione di tennis (ritratto nel giornale) si materializzi nella stanza per liberarla dall’insopportabile marito.

Se l’abilità della regista consiste mettere al servizio dell’impegno femminista la sua ricerca per lo sviluppo del linguaggio cinematografico La Souriante Madame Beudet di certo è un capolavoro particolarmente riuscito sotto questo aspetto. Allontanandosi da una rappresentazione realista e abbracciando un linguaggio onirico, mentre elabora una nuova sintassi cinematografica nel film ci offre una diversa immagine della femminilità, dove (anche) al genere femminile è concesso di desiderare e che tale desiderio può portare ad una sottile rivoluzione.

La modernità delle tecniche utilizzate dalla regista, dalla sovraimpressione ai primi piani, all’uso della soggettiva, consentono al pubblico di immergersi nella psiche della protagonista, e a condividere il suo punto di vista: mentre quest’ultima si consola al piano con le note di Debussy ci accorgiamo che il potere emancipatorio dell’immaginazione può agire sulla realtà e cambiarla (o almeno per il momento svelarne le ingiustizie).

Germain Dulac lancia una sfida aperta al pubblico delle donne, che in quegli anni si affacciano al cinema come forma di accesso alla scena pubblica e sociale: nella sua triste ironia la protagonista del film non riuscirà a cambiare vita; eppure, attraverso molteplici tecniche impiegate la regista centra un ambizioso obiettivo riuscendo a stabilire un'empatia tra lo sguardo spettatoriale e quello della protagonista.

E in fondo anche oggi, a distanza di un secolo, alla fine del film non siamo un po’ tutti dalla parte di Madame Beudet?