Volgere lo sguardo sugli anni Settanta, in particolare sulla produzione cinematografica americana quale ipotetico specchio dei tumulti sociali e dello scardinamento delle coordinate ideologico-culturali della collettività, significa prendere atto di uno scetticismo che animava gli spettatori, ma anche di un profondo mutamento del panorama industriale del cinema statunitense.

Proprio in questo interstizio tra crisi del cinema delle major e svolta generazionale del pubblico si inserisce un film come La stangata (1973) di George Roy Hill, un fenomeno cinematografico che forte dell’appeal dei suoi protagonisti, Paul Newman e Robert Redford, segnala certe tendenze di una Hollywood nostalgica ma allo stesso tempo briosa, ancora oggi entusiasmante nel suo equilibrio tra innovazione e continuità con i linguaggi della tradizione.

Nella coppia Henry Gondorff (Newman) e Johnny Hooker (Redford) l’omo-socialità truffaldina della Chicago anni Trenta si esprime non solo attraverso una forte predominanza nella narrazione ma anche attraverso una sincera intesa amicale che li spinge a vendicare la morte di un compagno tramite una “stangata” ai danni di un potente gangster.

Già in Butch Cassidy (1969) Hill si era affidato al divo Newman, nato nel circuito della Hollywood tardo-classica con titoli come Lassù qualcuno mi ama (1956), La lunga estate calda e La gatta sul tetto che scotta (1958), e all’astro nascente Redford de La caccia (1966), per attuare una rivisitazione del western in chiave scanzonata con i leggendari fuorilegge del vecchio West Butch Cassidy e Sundance Kid, tratteggiati come due ribelli scapestrati decisi a lottare fino all’ultimo.

Con lo stesso spirito smaliziato, La stangata può essere considerata come una riflessione carnevalesca, e proprio per questo in un certo senso audace e corrosiva, sulla Grande Depressione, una cornice storica restituita affidandosi a un registro leggero che intreccia le disavventure degli eroi in un picaresco gangster movie, filone ampiamente sfruttato dagli studios della produzione classica.

La patina classicheggiante che tinge l’opera di un gusto retrò è assicurata da Robert Surtees, uno dei più famosi direttori della fotografia del cinema americano, già assistente operatore di Gregg Toland e debitore delle sue lezioni anni Quaranta, capace di percorrere gli anni Cinquanta e Sessanta per affermarsi come uno dei rari esempi di cameraman della vecchia generazione capace di adattarsi al gusto dei registi della nuova Hollywood.

Brillante ibrido tra comedy archetipica e film gangster, La stangata è anche un’operazione a suo modo metalinguistica, e lo dimostra il tema della messa in scena che, sin dalla presentazione dei personaggi nell’incipit, raggiunge l’acme con l’allestimento della sala da corse per far perdere il boss Lonnegan: il piano architettato da Gondorff e Hooker, suggellato dal giro di poker con le carte truccate, conferma l’inganno quale motivo conduttore non solo della commedia, ma dell’arte cinematografica tout court, il regno dell’illusione in cui realtà e finzione si confondono.

La nuova Hollywood riscopre difatti le tematiche, i generi e i volti codificati sul grande schermo nei decenni precedenti per irradiare nuove possibilità di forma e di contenuto, un’ondata in bilico tra osservazione del presente, irreversibile nelle suo turbolenze, e meditazione sul passato: negli anni Settanta la riscoperta dei modelli dei classici si tradurrà infatti nei lavori più disparati in una vera e propria dichiarazione d’amore, dalla rilettura della screwball comedy come Ma papà ti manda sola? (1972) di Bogdanovich al tentativo di resurrezione del musical come New York New York (1977) di Scorsese, dal versante neo-noir come Chinatown (1974) di Polanski all’ammodernamento del war movie con Il cacciatore (1978) di Cimino e Apocalypse Now (1979) di Coppola.

Seppur nel suo anacronismo il ragtime di Scott Joplin, riarrangiato da Marvin Hamlish e sapientemente unito agli inserti narrativi, conferisce a La stangata una leggerezza che Hill aveva già sperimentato qualche anno prima in Millie (1967), gaia commedia musicale a sua volta tributo e parodia di un’altra epoca, i ruggenti Anni Venti, a testimoniare quanto il rimpianto per un passato perduto non necessariamente si sia esplicato in atmosfere cupe di solitudine e violenza, ma anzi sia esploso in una colorata “scommessa” che irretisce lo spettatore contemporaneo in un gioco di riflessi, maschere e inganni.