I “supereroi senza superpoteri” escono da filmati VHS, per andare a rifugiarsi in un luogo sicuro alla ricerca di riparo. Sono i ricordi d’infanzia di Beatrice Baldacci, già conosciuta alla 76ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia 2019 nella sezione Orizzonti dove vince come miglior cortometraggio e che in La tana, il primo lungometraggio della regista umbra sviluppato all’interno del programma Biennale College Cinema 2020/21, albergano dentro le mura inaccessibili e impenetrabili di una casa di campagna durante un’estate.
“Si muore un po’ per poter vivere”, intonava Caterina Caselli in un suo intramontabile brano del 1970. Ma non è la colonna sonora di questo film, che usa invece, musica diegetica per scene destinate a diventare “cult” con chiari riferimenti al cinema di Xavier Dolan. È il sentimento predominante nel linguaggio di Lia (Irene Vetere) che si esprime per mezzo di strani “giochi” da imporre a Giulio (Lorenzo Aloi) e mentre una seppellisce paure e sofferenze nel suo ventre, l’altro prova ad esplorare la “tana” del dolore con una timida torcia alimentata da speranza e amore.
“E mi sarà lecito possedere la verità in un’anima ed un corpo”, acclamava Rimbaud in Una stagione all’inferno, si ma con la giusta distanza e poche parole, comanda la sceneggiatura di questo esordio autoriale scritta insieme a Edoardo Puma. I due autori fanno appello al cinema che si esprime tramite il linguaggio dei corpi e chiedono agli spettatori di seguire i silenzi, due elementi che cercano insieme ad un erotismo un po’ impacciato protezione e bisogno di aiuto.
E se, nella seconda parte del film le mura occulte e segrete della casa impediscono di godere dello spazio dove è ambientata la storia, contemporaneamente, si assiste come al succedersi delle stagioni. Quella del conforto, del riso, della luce e quella dell’ignoto. Ma nessun periodo dell’anno risulta essere propizio a fare uscire dalla tana l’enigma emotivo dei personaggi, nuovamente alle prese con la guerra civile delle loro emozioni.