La taverna della Giamaica (1939) è l’ultimo film del periodo inglese di Alfred Hitchcock, nonché una delle sue opere più anomale: una scheggia impazzita nel suo universo, un film che non è tra i suoi più famosi né tra i più rappresentativi, ma che rimane un gioiello di atmosfera e suspense dove la mano del Maestro si fa sentire. Jamaica Inn è in realtà un film voluto più dal protagonista Charles Laughton (con la sua produzione Mayflower, fondata insieme al tedesco Erich Pommer) che non da Hitchcock, poiché il regista era già stato ammaliato dalle lusinghe hollywoodiane, e di lì a poco sarebbe finito sotto contratto con David O. Selznick per girare il suo primo film del periodo americano, Rebecca – La prima moglie (1940).
La taverna della Giamaica (così come i futuri Rebecca e Gli uccelli) è tratto da un romanzo della scrittrice inglese Daphne du Maurier: ambientato nell’Ottocento in Cornovaglia, sulle coste inglesi, ha come protagonista la giovane orfana Mary (Maureen O’Hara), che si reca dai suoi zii, i proprietari di una taverna – la Jamaica Inn del titolo. Un luogo dalla fama sinistra, e ben meritata, poiché è il covo di una banda di pirati, guidata dallo zio Joss, che fa naufragare le navi per impadronirsi del bottino e uccide tutti i marinai. Mary cerca dapprima ospitalità presso Sir Humphrey Pengallan (Charles Laughton), il giudice di pace della contea, ignara del fatto che proprio lui è il vero capo occulto della banda, e di cui anche gli sgherri ignorano l’identità. Finirà poi ospite della taverna, accorgendosi troppo tardi di essere caduta in un nido di vipere, e cercherà di salvarsi insieme a un ufficiale sotto le spoglie di bandito.
La taverna della Giamaica è forse l’unico film in costume di Hitchcock insieme a Il peccato di Lady Considine, il che aggiunge un’ulteriore peculiarità a un film che abbiamo già visto essere stranissimo per uno come il Nostro. Le ambientazioni e i costumi sono curatissimi e insoliti, poiché una taverna popolata da un insieme pittoresco di volti patibolari non è quello che ci aspetteremmo dal maestro del brivido; e inconsuete sono l’elegante villa del giudice (un grande Laughton, su cui bisognerà tornare) e le coste dove agiscono i pirati; così come la brughiera, immersa nella nebbia e attraversata da un calesse, sarebbe più tipica di un film gotico. Ma Jamaica Inn, in fondo, è proprio un film gotico – e anticipa in tal senso certe atmosfere di Rebecca, non a caso ancora tratto dalla du Maurier – o meglio è un incrocio, sapientemente dosato, fra il noir, il gotico e il dramma in costume, valorizzato dalla magnifica fotografia in bianco e nero ricca di ombreggiature, che non sfigurerebbe in un film horror.
La regia è meno appariscente e sontuosa rispetto ai suoi futuri capolavori – ma anche rispetto a classici del periodo inglese come La signora scompare – eppure un occhio attento scorge alcune sequenze squisitamente hitchockiane. C’è il massacro degli sventurati marinai, messo in scena in modo crudo e violento, con una sadica inquadratura su un pirata che pulisce fischiettando il coltello dal sangue; le inquadrature sulle coste frustate dal mare; la tentata impiccagione di Jem – il bandito che è un ufficiale in incognito – dove la prospettiva oscilla fra la soggettiva di Mary attraverso un pertugio e l’oggettiva sui piedi che penzolano, prima che la ragazza riesca a tagliare la corda, salvandolo; fino al raffinato espediente della macchina da presa che inquadra dall’alto il salto nel vuoto del giudice.
Hitchcock si dedica forse più alla messa in scena di tableaux gotici e dei rapporti tra i personaggi, che non alla suspense, ma c’è comunque una tensione crescente che sfocia nel lungo climax finale con la ragazza prigioniera, dalla taverna alla nave. Una peculiarità del meccanismo giallo/noir è la differenza tra il punto di vista narrativo dello spettatore e quello dei protagonisti: lo spettatore scopre ben presto che Pengallan è il capo dei pirati, mentre i protagonisti – fatta eccezione per lo zio Joss – ne sono ignari e lo scoprono soltanto in seguito.
Il fatto che La taverna della Giamaica sia stato ritagliato su misura per Laughton pare confermato dalla presenza enorme – e non solo per la stazza – dell’istrionico attore britannico, che giganteggia sornione, viscido e spietato, spesso inquadrato in primo piano, e con un’andatura particolare, persino goffa. Laughton svetta su tutti, valorizzato dai costumi pomposi, ma anche la O’Hara (che vedremo spesso nei capolavori di John Ford) gli tiene testa con personalità. Curiosamente, la musica altisonante ha quasi solo la funzione di aprire e chiudere il film, il regista non fa il suo consueto cameo, e manca del tutto il suo proverbiale umorismo nero. Un Hitchcock davvero insolito, e proprio per questo meritevole di riscoperta.