È la convergenza, bellezza! A lungo, nel mondo contemporaneo il fumetto è stato considerato un affare da nerd. Poi, negli ultimi anni,  il concetto di nerd ha assunto contorni via via più sfumati. Così, anche il fumetto - e il fumettista -  è divenuto una creatura ibrida e convergente, sempre più teso a dialogare con il pubblico e le altre arti, compresa la Settima.  

Basti nominare Zerocalcare: molto probabilmente gran parte dei consumatori mediali saprà di chi stiamo parlando. Complice anche la quarantena, da fumettista molto apprezzato da una nicchia di appassionati è divenuto una star crossmediale, impiegato su più media e conosciuto da più pubblici. Non è da meno Gianni Pacinotti, in arte Gipi. Pur con una cifra stilistica ben diversa e meno mainstream rispetto al collega Calcare, è dotato dello stesso eclettismo: ha realizzato video per il web e la televisione; ideato e disegnato Bruti, gioco di carte fantasy; scritto e diretto due film, entrambi presentati alla Mostra del Cinema di Venezia. E, naturalmente, è autore di graphic novel pluripremiate. Tra queste, La terra dei figli (2016). Dall’opera è  tratto il nuovo lungometraggio di Claudio Cupellini.

Negli anni, anche Cupellini ha dimostrato di possedere una (cauta) tendenza alla sperimentazione: dalla commedia romantica Lezioni di cioccolato, il dramma di Alaska e il thriller Una vita tranquilla, sino al genere post apocalittico di La terra dei figli. La terra dei figli è una terra in cui di figli non ne nascono più, una terra decimata e inospitale, resa sterile dai veleni. Un terra in cui i sopravvissuti hanno sacrificato i propri figli per risparmiare loro un mondo violento, senza memoria, senza storia. Pochi i bambini graziati: tra questi Il Figlio (Leon De La Valèe), che ai tempi della storia è un adolescente senza nome con un padre padrone (Paolo Pierobon), arreso a un eterno presente in cui sopravvivere è imperativo e amare impossibile. Rimasto solo in seguito a un tragico evento, Il Figlio lascia la casa galleggiante mosso da un unico obiettivo: trovare qualcuno che possa leggergli il diario del padre. Cupellini tratteggia un viaggio iniziatico che interroga i suoi protagonisti  sul potere simbolico della parola. È un mondo narrativo costellato di personaggi  in bilico sulla sottile linea rossa che separa l’umano dall’inumano.  La terra dei figli è allegoria del mito decaduto della Legge del Padre, un’assenza che condanna i propri figli a un analfabetismo che è anche, e soprattutto, affettivo.

Come specificato, La terra dei figli è liberamente ispirato alla graphic novel di Gipi.  L’impressione è che Cupellini si sia perso nelle pieghe di questa libertà.  Gipi è un artista di suggestioni, di simbolismi e immagini evocative. Per questo, mettere in scena una sua opera è un’operazione rischiosa.  Il film sembra funzionare fin quando si mantiene fedele al testo, ricalcandone le ambientazioni cupe e oppressive e la ferocia del silenzio. Dal mid point in poi, Cupellini interviene sul racconto. Si perde la dimensione fiabesca del fumetto - che per personaggi grotteschi e tappe evolutive ricorda una fiaba dei fratelli Grimm - in favore di maggior realismo e un’ambientazione steampunk.

Inoltre, forse per ritmo, forse per una migliore comprensione della trama, sono introdotti dialoghi forzati e didascalici. Si pensi al boia, interpretato da Valerio Mastrandrea. Per quanto anche nel romanzo ricopra una funzione fondamentale, si ha l’impressione di assistere più a una performance costruita per il bravo attore che a una scelta utile al racconto. Il punto è che la forza de La terra dei figli, il romanzo, risiede nello "Show, don’t tell". In un film in cui le parole cannibalizzano i  personaggi, si perde il climax narrativo incarnato da una semplice carezza materna, la speranza di una nuova umanità possibile che quel gesto porta con sé. Non che Cupellini non vada nella stessa direzione, ma i mezzi utilizzati depotenziano i fini.

Tralasciando il confronto con il fumetto, senz’altro La terra dei figli resta un esperimento originale e di grande impatto visivo, che ricorda opere importanti come I figli degli uomini di Cuarón e produzioni italiane tra le quali Il nido; è prova di un fermento sperimentale del nuovo cinema italiano, sempre più orientato alle produzioni di genere dal respiro internazionale.