Se è vero che il documentario è il genere cinematografico della contemporaneità, quello più soggetto allo sperimentalismo forsennato di oggi e quello meno saturo in termini di immaginario, che non sembra avere leggi e ortodossie, sdoganato ai festival ed emulato persino dal cinema di finzione, La verità su La dolce vita pare si senta in obbligo di possedere una sua peculiarità di sguardo senza avere tuttavia un discorso filmico preciso a cui fare riferimento.

Il film di Giuseppe Pedersoli tenta in ogni modo di costruirsi un rilievo estetico tutto suo e di produrre integrazioni e sincronismi fra i tanti registri del racconto, eppure ciò che ne risulta non è che la sommatoria di modi e stratagemmi narrativi in generale molto meno interessanti della storia che descrivono. Grazie ad un lungo e inedito carteggio del 1960 tra Federico Fellini e i suoi produttori Giuseppe Amato e Angelo Rizzoli, il documentario ricostruisce le vicissitudini produttive de La dolce vita e ne sistematizza la cronologia, dando così la misura di quando e quanto i personaggi in campo hanno dato il proprio contributo alla lavorazione di uno fra i più illustri capolavori del cinema italiano.

Pedersoli ha avuto accesso ad una corrispondenza così appassionante e dettagliata che ogni lettera potrebbe essere tranquillamente una battuta di sceneggiatura (e nel film, in alcuni momenti, è proprio così), ogni telegramma un colpo di scena, ogni telefonata una nuova prospettiva di senso, come se la storia fosse già pronta per essere filmata e il materiale d’archivio facesse drammaturgia da sé. Il compromesso con Dino De Laurentiis, a cui Amato cedette La Grande guerra di Monicelli pur di mettere Fellini sotto contratto, il prolungamento oltre misura delle riprese, l’abbandono a lavori in corso di Rizzoli per via dello sforamento del budget (il film costerà 850 milioni rispetto ai 450 stabiliti), i disguidi e le incomprensioni relativi al montaggio finale e alla distribuzione, la ricezione fredda da parte della stampa italiana e il trionfo in Francia: il racconto dell’odissea produttiva, che appartiene al cinema di ogni periodo e tradizione, non smette ancora adesso di riesumare archetipi e di rimettere in circolo mitologie.

Tutta questa materia storiografica, che è allo stesso tempo un congegno narrativo formidabile, viene maneggiata attraverso un surplus di stili e di linguaggi. Le sequenze di finzione sono troppo modeste per portarsi sulle spalle il peso emotivo del documentario, eppure Pedersoli le lavora come se invece dovessero farlo: il film, per esempio, gioca con i piani temporali iniziando dalla fine, ovvero da Peppino Amato seduto in sala di proiezione mentre visiona il cut originale de La dolce vita (quello da oltre quattro ore di durata), oppure rompe la quarta parete e, facendolo guardare in camera, mette Amato direttamente in contatto con noi spettatori.

Allora La verità su La dolce vita va fuori giri quando sceglie di simulare un cinema più artefatto, del quale non può né riprendere seriamente i codici né tanto meno replicare le sofisticazioni, ma funziona quando sviluppa la sua parte convenzionale. Quella che unisce le interviste e i filmati di repertorio, quella che indaga e ricostruisce, quella che enfatizza il piacere per la divulgazione e si entusiasma per ogni aneddoto dal dietro le quinte, per ogni voce riverberata dal passato, per ogni personaggio rievocato. Dunque il documentario è un’occasione non soltanto per tornare all’epoca in cui il nostro era il cinema più bello del mondo (solo nel 1963 infatti l’Italia vinceva Cannes con Il Gattopardo, Venezia con Le mani sulla città, Berlino con Il diavolo e l’Oscar con 8 ½), ma anche per celebrare il trionfo di un film che in ogni stagione artistica successiva ha ininterrottamente generato mondi e prodotto miti.

Perché, a sessant'anni di distanza, questo “tuffarsi nelle notti estive romane, dentro il cuore della città, mentre attorno a te c’era l’illusione che avvenissero continui suggerimenti e apparissero personaggi” è tuttora un vortice di seduzioni, una rotativa di invenzioni, un esempio di come farci ancora sorprendere davanti al fascino della semiosi e al mistero della creazione cinematografica.