Un estratto esclusivo per Cinefilia Ritrovata dal volume "Spike Lee. Orgoglio e pregiudizio nella società americana" di Lapo Gresleri (Bietti, collana Heterotopia), che sarà presentato a Bologna il 23 gennaio alle ore 18.

Vivere in una società multietnica significa convivere e condividere il medesimo spazio, tendenzialmente urbano, con gruppi provenienti da realtà socioculturali anche profondamente diverse dalla propria, in una forma di aggregazione che fonda le sue radici proprio nell’incontro tra varie culture e storie. Questa compenetrazione reciproca darebbe così vita a una condizione unificante, basata su principi fondamentali come l’uguaglianza, l’accettazione e il rispetto della propria e altrui diversità che, mantenute vive all’interno della comunità, si fanno preziosi punti di partenza per un profondo confronto in vista di una vera comprensione e accettazione reciproche, in uno sforzo collettivo volto alla ricerca di una coesistenza pacifica e del bene comune.

Spesso però i gruppi dominanti tendono a guardare con sospetto alle varie minoranze, viste come “diverse” e perciò ipotetiche fonti di “alterazione” di un ordine stabilito, ataviche minacce al proprio status sociale a cui si tenta di porre limiti per renderle più simili a sé e, di conseguenza, più controllabili.

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Da qui nascono le forme di segregazione e discriminazione, gli atti di violenza fisica e morale che nel corso del Novecento si è imparato a conoscere e in maggioranza a condannare, come i ghetti e le concezioni di razza superiore e inferiore. O forme ben più implicite come gli stereotipi culturali e razziali i quali, in modo diretto o indiretto, hanno segnato e ancora segnano il vivere sociale e che, ora più che mai, paiono ripresentarsi in tutto il mondo in un’escalation di odio e pregiudizi che richiederebbe più approfonditi studi e riflessioni.

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È evidente che in una società come quella contemporanea, così condizionata dai mezzi di informazione e comunicazione di massa, proprio questi veicoli di immagini, parole e idee assumano un ruolo rilevante, non tanto nel plasmare, ma almeno nell’influenzare l’opinione pubblica su questioni e realtà che, in modo più o meno diretto, coinvolgono tutti. E altrettanto chiaro risulta come questi mezzi abbiano contribuito e contribuiscano tutt’ora a motivare e sostenere forme di razzismo implicito ed esplicito.

Si pensi al cinema americano e all’immagine che ha offerto e offre della propria società, in particolare sul rapporto che la maggioranza bianca ha instaurato con quella afroamericana, da sempre soggetta a diverse forme di oppressione in un sistema fondamentalmente multietnico come quello statunitense. Un contesto influenzato dalle culture delle minoranze al suo interno, ma al contempo segnato dal carattere fortemente contraddittorio che si è fatto tipico della sua vita civile, venendone a minare in diversi modi il raggiungimento di pari diritti tra le comunità.

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La cinematografia statunitense assume un ruolo rilevante nella creazione dell’immagine del nero, non solo nella produzione indipendente afroamericana – che, dalla fine degli anni Dieci, ha realizzato film essenzialmente per neri dando voce al dolore della loro condizione – ma anche e soprattutto in quello bianco hollywoodiano, dove è ancora più evidente il lento e faticoso processo di distacco dagli stereotipi attribuiti alla minoranza secoli prima, poi modificatisi seguendo l’evoluzione dei contesti socioculturali nel corso del Novecento. (…) È negli anni Ottanta che si assiste alla riaffermazione, tra gli intellettuali afroamericani, di un “orgoglio nero” e si attesta la necessità di un urgente dialogo tra le parti in causa. In tale prospettiva si indirizzano i giovani registi del New Black Cinema, di tendenza prevalentemente indipendente, tra cui emerge Spike Lee, autore di grande successo, l’unico capace di raggiungere il grande pubblico americano ed europeo con film “neri”, dove la realtà contemporanea della sua comunità è raccontata in maniera esplicita, dignitosa ed energica, rispettosa, spesso critica.

L’aspetto forse più interessante del suo cinema, ciò che lo rende uno dei principali portavoce e testimone della realtà sociale afroamericana, sta nel fatto che la sua filmografia si rivolge sia al pubblico nero che a quello bianco, tirandoli in causa entrambi come due facce della stessa medaglia, le due parti da cui deve partire la spinta per la vera comprensione e la conseguente pacifica convivenza di cui sopra. Il lavoro di Lee diventa dunque un’opera essenziale, non solo in quanto acuta lettura di una realtà sempre poco conosciuta se non dall’interno, ma soprattutto per il messaggio e l’invito a guardare sé e gli altri in un modo diverso, più giusto ed equilibrato.

Ma come giustamente sostiene Roberto Minervini: “L’America odierna ha smesso di lottare per l’uguaglianza tra classi, razze e culture diverse. Questo perché, a oggi, la soluzione per la civile convivenza tra razze non è più il raggiungimento dell’uguaglianza, bensì il colorblindedness, il cosiddetto daltonismo etnico, per cui ogni differenza tra le varie razze dev’essere minimizzata, ignorata, non percepita, secondo il concetto di estrazione biblica del "We are all humans". L’obiettivo finale è far sì che l’opinione pubblica percepisca la società americana come ‘iperrazziale’. Ecco perché i media Usa hanno tirato i remi in barca, gettando in mare la pesante zavorra della necessità di “parlare del diverso”: perché  in una società iperrazziale non c’è spazio per le identità collettive dei vari popoli. Il daltonismo etnico implica l’appiattimento di tali identità. Pertanto, più che post-razzismo, quello americano è un caso di riciclaggio istituzionale dei principi del suprematismo bianco. Questo presunto appiattimento delle differenze non si fonda sulla convergenza tra razze e culture, bensì sulla fagocitosi dell’identità culturale delle minoranze etniche da parte della classe bianca dominante.

Ecco, l’America di oggi è anche questo, un Paese in cui il sogno di Martin Luther King è diventato l’incubo di intere generazioni di neri americani. Quindi, oggi più che mai, è necessario che Spike Lee continui a urlare, e che noi tutti gli facciamo eco”.