Da una parte la Storia, fatta di ricordi, di imprese, di testimoni e testimonianze da riscoprire. Dall’altra le immagini, da catturare, da prefigurare, da ricostruire per essere portate in scena. La vetta degli dei, primo lungometraggio interamente diretto dal talentuoso animatore francese Patrick Lambert (aveva già fatto esperienza di regia in un paio di episodi in un piccolo gioiello nascosto del 2017, The Big Bad Fox and Other Tales) è la sintesi perfetta di una della tematizzazioni più care al cinema contemporaneo: quella della rappresentazione.

Prendendo le mosse dalla passione (o sarebbe meglio definirla ossessione) di un fotoreporter che vuole fare luce su alcune vicende sportive che riguardano l’alpinismo e i suoi record, il regista non si dimentica che la base di partenza del suo lavoro arriva da un manga. La vetta degli dei (Netflix) si pone quindi sin da subito l’interrogativo di come portare in scena le avventure mozzafiato dei suoi protagonisti. Siamo lontanissimi, ovviamente, dal fotorealismo di Free Solo (2018), dai droni, dalle infografiche e dal product placement degli sponsor di sport estremi. Siamo nel mondo dell’animazione, quanto di più lontano e irreale possa esserci nell’immaginario audiovisivo.

Eppure La vetta degli dei è proprio su questo concetto che sembra voler provocare lo spettatore. Cosa stiamo guardando? Domanda che, in maniera implicita ed esplicita, si pongono spesso i protagonisti del film. Sogni, incubi, ricordi, fotografie sbiadite, visori notturni, cannocchiali sono tutti elementi che distorcono la realtà, che la modificano rendendola per questo meno credibile, meno veritiera.

Indagando su una misteriosa scomparsa tra le vette della cima più alta al mondo, la Storia dell’alpinismo potrebbe subire una rilettura epocale. Il desiderio di scoprire cosa sia davvero accaduto tra i ghiacciai dell’Everest è il motore che dà il via a un film che della passione irrazionale e dell’ossessione che da essa deriva fa il fulcro del racconto. Il giornalista vuole scoprire la verità, vuole vederla (la sua “caccia” è infatti dedicata inizialmente al recupero di un rullino fotografico). Tuttavia, solamente ripercorrendola, la verità, solamente provando a mettersi fisicamente sul suo tracciato e quindi rappresentarla, avrà modo di agguantarla. Ecco allora che Patrick Imbert si trova nella medesima posizione del suo protagonista.

La vetta degli dei vuole, anzi, deve essere un film spettacolare, mozzafiato. Racconta di gesti atletici impensabili per noi comuni mortali, di panorami da contemplare in tutta la loro potenza e di un ambiente naturalistico che forse non riusciremmo nemmeno a immaginare per quanto è distante dal nostro vissuto. Imbert lo sa, ma sa anche che il suo cinema è fatto di tratto e colore. A maggior ragione poiché deve le sue origini al disegno giapponese di Jiro Tanigouchi.

Eppure è proprio in questo cortocircuito, in questo ossimoro visivo che si concretizza il valore principale del film. La vetta degli dei (ri)costruisce un’esperienza da brivido facendo leva non sull’aspetto visivo, ma su quello sensoriale. Impossibile non trattenere il fiato di fronte ai dirupi, alla tensione di un passaggio di corda, al pericolo costante di una caduta che costerà la vita. La montagna è la vera protagonista, una montagna più viva, fredda e vera che mai pur se rappresentata nella sua totale finzione.

Così come il fotoreporter troverà la verità provandola sulla sua pelle, lo spettatore potrà garantire di essere stato sull’Everest semplicemente guardando un film di animazione. Ogni magia si basa su un trucco. Quello della rappresentazione è il trucco del cinema (non solo) d’animazione.