Sono passati settantanove anni da quando il campo di sterminio di Auschwitz fu liberato dall’esercito russo e l’orrore divenne noto al mondo. Qualcuno in più, invece, dall’idea della soluzione finale e dalla presa di coscienza di molti capi di stato del mondo democratico o religioso, Churchill e Papa Pio XII su tutti, di quel che accadeva nei lager della Germania nazista. La zona di interesse di Jonathan Glazer si colloca proprio in quel lasso di tempo e proprio in quel luogo, a un passo dal capolinea ineguagliato del male umano, dentro la casa del comandante di Auschwitz, Rudolf Höss, e della sua famiglia.

Mi erano note due fra le nette scelte di regia operate dall’autore britannico nel film, prima di entrare in sala. Che era sua intenzione allestire una sorta di Grande fratello dentro una casa nazista, con plurime macchine da presa dislocate e nascoste in svariati angoli dell’abitazione e lunghi tempi di ripresa, superiori ai dieci minuti consecutivi, da selezionare solo in fase di montaggio, che vedevano gli attori recitare simultaneamente nelle diverse stanze e negli spazi all’aperto.

E che avrebbe sottoposto lo spettatore a due film in preciso contrasto l’uno con l’altro: quello visto -la famiglia, i giochi dei bambini, le visite di amici e colleghi, le gite al lago- e quello udito -le esecuzioni, le urla di carnefici e vittime, il lavoro dentro al campo. Tutto faceva presupporre una visione trasmutata in esperienza fisica, anche insopportabile, durante la quale il corpo e il cervello avrebbero chiesto di arrivare presto alla fine, soffrendo il passare del tempo come una tortura.

Dalla liberazione nel 1945, letteratura e cinema si interrogano sull’opportunità di mettere in scena l’Olocausto con opere di finzione non documentarie. La questione resta oggi aperta e difficilmente verrà mai chiusa. Un evento per il quale tutte le discipline sociali hanno elaborato molteplici teorie, dichiarandosi ognuna fallimentare nello spiegare l’inspiegabile, resta argomento proibitivo per ogni autore.

Se Spielberg e Haneke hanno abbracciato in modalità opposte in Schindler’s List e Il nastro bianco la teoria psicologica che vuole un’intera generazione di tedeschi usa all’odio verso l’altro fin dall’infanzia e di ego irrimediabilmente disumanizzati in risposta all’affetto mancato, scegliendo di non mostrare la vita nei campi, l’uno per dedicarsi al Giusto Schindler e l’altro per concentrarsi sulla giovinezza dei futuri artefici del Reich, dentro alle camere a gas fra i SonderKommando chiamati ad alimentare i forni crematori con i cadaveri dei loro fratelli era invece entrato nel 2015 László Nemes ne Il figlio di Saul.

L’inglese Glazer, nell’adattare liberamente il romanzo omonimo del suo connazionale Martin Amis, realizza un’opera complessa e radicale nella sua astrattezza, si concentra sui giorni e sulle notti di casa Höss, dei suoi cunicoli sotterranei e delle sue camere con mezza vista sull’inferno, e ci dice cosa della zona di interesse e dei suoi custodi, infanti, bambini, ragazzine, adulti e anziani, di cognome Höss? Racconta molte cose, nessuna in particolare, tutte rilevanti e ciascuna potenziale oggetto di altri film a sé stanti, scegliendo deliberatamente di non dire nulla e di aprire l’abisso del fuori campo non durante la centrale sequenza notturna che ingloba ogni possibile lettura, ma oggi, a ottant’anni di distanza, nel campo diventato museo-cimitero.

Il risultato dell’operazione, almeno per chi scrive, è un’esperienza in cui a mancare è lo stravolgimento emotivo insito nel subire, vedendola o sentendola, la violenza assoluta, per esserne segnati in modo indelebile come avveniva eccome, invece, nella mattinata in cortile al termine di Arrivederci, ragazzi di Louis Malle. Ma cresce a distanza il sospetto che fosse proprio questo l’obiettivo di Glazer: mostrare e dimostrare come si possano condurre anni di vita immersi nel male senza risentirne più di tanto, vuoi per cattiveria, negazione, stordimento, indifferenza, incomprensione o devianza.

Se così, allora La zona di interesse sarebbe comunque un film profondamente irrisolto, che sfrutta scientemente solo al cinquanta per cento le potenzialità del mezzo cinematografico, laddove il cento per cento è non solo possibile ma anche dovuto, e ampiamente saccheggiabile per lo spettatore in un altro film di quest’anno dedicato a un genocidio, Killers of The Flower Moon. Ciò che sembra mancare qui è qualcosa di simile al finale del film di Scorsese e alla sua portata.