Perché Lacci è un film importante? In primis perché Daniele Luchetti torna a mettere in scena un romanzo di Domenico Starnone, a venticinque anni dal bellissimo La scuola. La seconda ragione sta nel fatto che l’apertura di Venezia 77 spetti a un film decisamente coraggioso, a maggior ragione se si considera il lockdown che pochi mesi prima ha costretto un po’ tutti a misurarsi con il concetto di “legame” — in maniera tenera, ma anche brutale e impietosa.

Ne Gli esami non finiscono mai di Eduardo De Filippo, Gigliola tuona contro il marito Guglielmo che “quando a letto non si ha niente da dire si fanno i figli.” La frase è estrema e il giudizio senza dubbio un po’ troppo feroce per essere declinato a tutte le dinamiche di coppia, ma nella Napoli anni Ottanta di Lacci, Aldo (Luigi Lo Cascio) e Vanda (Alba Rohrwacher) sembrano correre lo stesso pericolo. Sembra non avere niente da dire Aldo (proprio lui, che di professione fa lo speaker in radio) e si mostra maldisposta ad ascoltare Vanda, che per il marito (e per la radio che ne fa le veci) sembra sviluppare un autentico rigetto. L’imprevista infatuazione per Lidia condurrà Aldo a un progressivo allontanamento fisico e affettivo dalla moglie e dai figli, mentre Vanda non riuscirà a rassegnarsi al tradimento. Intendiamoci, non il tradimento di un sentimento, ma il tradimento di un patto. Il patto sociale suggellato davanti a Dio e agli uomini, come rammenta lei stessa; il legame che li ha resi moglie e marito, padre e madre. Vanda sembra disposta a rinunciare alla serenità pur di vestire il suo ruolo, pur di mantenere stretti i “lacci” del suo matrimonio.

Quando però la vita in comune è irrimediabilmente corrotta sono i figli, Sandro e Anna, che rischiano di trasformarsi nell’unico strumento di ricongiunzione possibile. E se Aldo le scarpe le allaccia in maniera strana — in netta rottura con la convenzione sociale che “vuole così” — la vita sembra costantemente ricondurlo a vestire i panni del padre e del marito, sebbene il cuore e l’istinto suggeriscano il contrario. Ma nessuno costringe davvero Aldo, che si barcamena tra l’amore di Lidia e il rigetto per il fallimento familiare. Nemmeno Vanda, che è capacissima di svelare le parti che lei e il marito sono costretti a recitare. C’è una linea sottile che separa il “perché si fa” e il “perché è successo” ed è l’Aldo ormai anziano (Silvio Orlando) a smascherarne il segreto: “Per stare insieme bisogna parlare poco, tacere sì, tanto.”

Ma gli stessi lacci che legano  sono quelli in cui spesso si inciampa, e spetta sempre ai figli, eredi diretti di colpe e virtù, il compito di demolire il tempio dell’ipocrisia borghese. Per Starnone (prima) e per Luchetti (poi), la nemesi storica si trasforma in un’euforica furia riparatrice che insieme condanna e compensa, capace di minare i simboli della passività e le menzogne del quieto vivere. Lacci è un film che non si limita a raccontare una storia, ma che sviscera le ragioni della dissoluzione: non si tratta di indagare le dinamiche della rottura ma quelle che conducono ciclicamente alla riparazione.

Con un montaggio ingegnoso che dissemina ogni dettaglio con parsimonia diabolica, Luchetti restituisce il disagio dell’animale sociale imprigionato nella sua condizione di ricucitore. L’atmosfera cupa e tensiva non risparmia nessuna delle parti in causa, ma sono le intense interpretazioni dei protagonisti a rivelare il prezzo da pagare quando si rimettono insieme i cocci: il bilancio è spietato, le anime lacerate. In un’epoca in cui la parola “famiglia” diventa scudo di valori troppo spesso generici e fumosi, Luchetti decide di mettere l’occhio al buco della serratura, svelando il fallimento che sta alla base di un’ideale civile e sociale ancora troppo distante dal fattore umano. Fedeli al proprio ruolo, sì. Ma a che prezzo?