Il martedì a tinte western del Cinema Ritrovato 2018, dedicato appassionatamente al cinquantesimo anniversario di C’era una volta il West, non poteva trascorrere senza l’omaggio ad uno dei collaboratori più geniali di Sergio Leone. Succede quindi che il ricordo di Tonino Delli Colli, storico direttore della fotografia della pellicola, trovi il suo doveroso spazio nella rassegna Otto libri sotto le stelle: l’occasione è la pubblicazione di un volume biografico, che rende giustizia alla sua lunghissima carriera raccontando il “dietro le quinte” di un uomo quanto mai riservato nella vita pubblica. A scriverlo, non poteva essere che il figlio Stefano, giornalista dal 1982, nonché direttore responsabile di Staffetta quotidiana prima e Quotidiano energia poi. A pubblicarlo, la giovane casa editrice Artdigiland, all’interno di una collana dedicata all’uso della luce in ambito artistico, laddove ci si focalizza sul mondo cinematografico (ma non solo), con volumi dedicati ad alcuni dei numi tutelari: Giuseppe Lanci, Luciano Tovoli (con un libro dedicato a Suspiria) e Luca Bigazzi sono i nomi che spiccano. E proprio la realizzazione del volume su Lanci è stata l’occasione per l’incontro tra la direttrice della casa editrice, Silvia Tarquini, e Stefano Delli Colli. Un ulteriore inciso, però, risulta necessario: Tonino Delli Colli non è stato solamente il direttore della fotografia delle pellicole leoniane. A lui si deve il merito di aver accompagnato Pasolini per (quasi) tutte le sue avventure cinematografiche; a lui si è accompagnato Fellini, in una collaborazione che ha riguardato gli ultimi film del regista riminese; a lui si sono legati Risi, Monicelli, Bellocchio, Wertmuller e Benigni (per La vita è bella), per non citare registi stranieri quali Polanski e Annaud. Di fronte ad un percorso del genere, vi lasciamo all’intervista che abbiamo realizzato con Stefano Delli Colli.

Ci ha colpito molto il fatto che lei sia ricorso al crowdfunding per la realizzazione di questo libro, malgrado la fama di Tonino Delli Colli: ci racconta la genesi del volume?

Il crowdfunding è stata la conseguenza della difficoltà di trovare un editore che potesse sostenere le spese di pubblicazione, di stampa e promozione. Indipendentemente da questo, avevamo comunque deciso di fare questa operazione, per ricordare un cinema che ormai non c’è più e che ha accompagnato mio padre, dalla fine degli anni Trenta fino a La vita è bella, toccando tutte le epoche e passando per i suoi tre registi più affezionati, ovvero Pier Paolo Pasolini, Sergio Leone e Federico Fellini. In sostanza, il libro vuole ricostruire non solo questa storia, ma anche un modo di illuminare la scena cinematografica che oggi, col digitale, si è praticamente persa.

Partiamo allora dalla collaborazione con Pasolini: suo padre accettò addirittura di diminuirsi lo stipendio per lavorare alla realizzazione di Accattone. Da dove nacque questa volontà?

Fu un caso del tutto fortuito, perché all’epoca papà lavorava in film abbastanza commerciali. Caso volle che Alfredo Bini stesse cercando un direttore della fotografia per il primo film di Pasolini e che papà fosse libero. Lui scommise su un poeta conosciutissimo e allo stesso tempo su un regista alle prime armi: fu un successo, sia per il modo di fotografare la luce, sia per la storia che Pasolini aveva scritto. Rimane una pellicola in cui sia il lato estetico che i contenuti risultano notevoli.

Suo padre apprezzava molto Risi e Monicelli, in quanto registi pratici e organizzati, che gli permettevano di non fare tardi alla sera. Quali erano, al contrario, i registi che lo facevano infuriare?

Sicuramente Sergio Leone lo faceva arrabbiare: particolarmente meticoloso, Leone ci metteva moltissimo a girare, al punto che si arrivava a sera inoltrata con ancora alcune scene da fare. Questo perché il regista voleva prendere le ombre lunghe tipiche dei film western e quindi aspettava il tramonto. Al contrario, mio padre era stanco e voleva terminare le riprese: su questo, discussero molto e qualche volta litigarono.

Arrivando a Leone, non possiamo non parlare di C’era una volta il West. Nel libro lei racconta di essere stato sul set, tra l’altro…

È stato uno dei pochi viaggi che ho fatto con mio padre e mi è rimasto impresso. Era l’estate del 1968 e sono stato in Arizona, per le scene ambientate alla Monument Valley: uno dei posti probabilmente più affascinanti, con questi picchi rosa a sovrastare il calesse di Paolo Stoppa, in una delle scene più note. Racconto un aneddoto, riferito al flashback finale, per intenderci la scena ambientata sotto l’arco di pietre: Sergio voleva che, nel momento in cui il giovane Armonica cadeva per terra, dalla caduta si sollevasse la polvere; malgrado svariati tentativi, non riusciva a ottenere l’effetto desiderato. Dopo varie peripezie, un macchinista scavò una buca nel punto in cui sarebbe caduto il viso del ragazzo e vi mise un cuscino ricoperto di sabbia, di modo che, toccando il suolo, si sollevasse uno sbuffo di polvere: così riuscirono a girare la scena. Una maniera di fare cinema decisamente artigianale.

Sabato, sempre nell’ambito di questa rassegna, Tornatore presenterà il suo libro Leningrado, dedicato al progetto incompiuto che, prima di tutti, fu pensato da Sergio Leone: suo padre ne sarebbe stato sicuramente coinvolto.

Com’è noto, era un progetto di Leone, il quale aveva raccontato alcune cose a mio padre; naturalmente non se ne fece nulla, a causa della morte di Sergio. Tuttavia, mio padre non era molto convinto: non tanto per il progetto, quanto perché non sopportava di dover lavorare al freddo, nel rigido inverno russo. A un certo punto disse a Leone: “Perché non fai un film giallo, una volta tanto? Così ce ne andiamo a Parigi, dove fa caldo e si sta bene: altro che Leningrado!”

Un capitolo molto evocativo del libro ricorda anche l’amicizia con Fellini e Mastroianni: a quest’ultimo è dedicata una rassegna, al Cinema Ritrovato 2018.

Mastroianni era una persona molto semplice, al di là della sua importanza come attore e personaggio pubblico. Amava parlare di cucina e ricordo che una volta citò la pasta ai fagioli che sua madre gli cucinava, con un po’ di olio a crudo. Parliamo comunque di epoche in cui c’era un rapporto tra registi, attori e operatori diverso dall’attualità. Basti pensare che papà si portava appresso sempre gli stessi operatori e collaboratori. Amicizie profonde e, come già detto, un lavoro all’insegna dell’artigianalità.

Suo padre ha lavorato con i principali registi italiani e non solo: ha mai avuto dei rimpianti per aver perso qualche occasione?

Il più grosso rimpianto è sicuramente non aver lavorato con Woody Allen, che lo chiamò per realizzare Hannah e le sue sorelle: alla fine prese Carlo Di Palma, che rimase il direttore della fotografia dei film di Allen fino a fine anni Novanta. Mio padre ebbe un po’ di paura, perché – a modo suo – era un po’ sempliciotto: intanto, non sapeva l’inglese. Diceva: “Ma che vado a farci in America? Chissà come mi trasformo dopo…alla fine in Italia sono già abbastanza famoso e posso lavorare tranquillamente”. Quindi decise di non andarci. Chissà, forse la sua carriera sarebbe svoltata in un senso più redditizio; ad ogni modo, pur rimanendo in Italia, è riuscito ad avere una carriera di primo livello.