L’amore è finito e Miriam e Antoine si sono separati. Comunicano poco e male ma devono discutere sulla custodia del secondogenito minorenne, che ha esplicitamente richiesto di non essere affidato al padre. Tuttavia l’uomo ha una solidità economica tale da indurre il giudice a decidere per l’affido congiunto. Perché l’ex moglie è sconvolta dalla sentenza? Perché Antoine è possessivo, rancoroso, paranoico, infido, violento e pretende di riavere la famiglia che ha distrutto. A tutti i costi.
Alla prima esperienza nel lungometraggio, l’attore Xavier Legrand estende il plot del suo precedente corto, Avant que de tout perde, grazie a cui fu candidato all’Oscar, ed orchestra una vicenda devastante sulla violenza contro donne rese vulnerabili anche dalle carenze dello Stato e, di conseguenza, figli che subiscono la crudeltà dentro le mura domestiche. In questo senso la sua adesione al punto di vista e allo sguardo sgomento del bambino è totale, e il piccolo Thomas Gioria si assicura tutti gli applausi per come riesce a piangere con una verità così lancinante da spezzare il cuore ogni volta che il suo viso appare sullo schermo.
Premiato con il Leone del futuro per l’opera prima e con il Leone d’argento per la miglior regia (e così la giuria presieduta da Annette Bening si è assunta una bella responsabilità prediligendo un outsider esordiente), Legrand non risparmia niente in questo implacabile dramma su quel che accade dopo la disgregazione di una famiglia, ma d’altro canto quel percettibile tono ricattatorio contribuisce a montare la tensione nei momenti più insostenibili della storia. Alle prese con un tema così ponderoso e pericoloso, dirige con sorprendente e chirurgica scaltrezza una tragedia privata che sconfina nel thriller sociale, abbacinando lo spettatore in una catabasi che riesce a non appiattirsi sui codici del “film dossier” e del “segue dibattito”.
Racchiuso in un’ora e mezza secca senza esclusioni di colpi, Jusqu’à la garde (in Italia si chiamerà più semplicemente L’affido) getta lo spettatore in un incubo stremante. Il padre è Denis Menochet, e incute paura anche quando i suoi occhi sembrano tradire la violenza delle sue azioni, rivelando una bestialità dai tratti tremendamente umani; Léa Drucker è la mamma, e riesce ad evitare i pericoli dell’autocommiserazione comunicando con estrema empatia l’insopportabile angoscia a cui è sottoposto il suo gracile corpo di emblematico personaggio-vittima.