Negli anni '50 il western classico esala gli ultimi respiri. La Civiltà ha raggiunto l'oceano, la Frontiera è solo un ricordo, gli Ethan Edwards (Sentieri selvaggi) abbandonano le mura domestiche per perdersi nelle praterie. Dolorosamente consci dei trucchi (L'uomo che uccise Liberty Valance), sporchi del sangue e sudore versati dagli antieroi di Anthony Mann, colti dai primi fremiti revisionisti (L'amante indiana), è comprensibile che al confronto i western di Budd Boetticher - col loro insolito ma quieto esistenzialismo - possano passare per conservatori. Impossibile però dar torto a Peckinpah - "nel suo stesso interesse, sarebbe bene che imparasse ad accettare dei compromessi" - dopo aver visto il "conservatore" trasformare il glorioso Cinemascope di L'albero della vendetta (1959) in un teatro di ombre, gravido di tutta l'inquietudine di un mondo al collasso.

Si può confrontare questa quinta (di sette) collaborazione della coppia Boetticher-Randolph Scott con The Hateful Eight di Tarantino (2015), con l'idea che vi è (dichiaratamente) alla base di moltiplicare per otto il mistery man interpretato da grosse guest star in certi speciali dei serial western anni '60 alla Gunsmoke. Al di là di qualche somiglianza di trama - il bounty hunter Ben Brigade (Scott) deve assicurare alla giustizia un assassino, ma la banda del fratello di costui è nei paraggi pronta a colpire - è proprio su una simile incertezza che si costruisce il rapporto coi (e fra i) cinque protagonisti. Apparentemente stolido, l'obiettivo di Brigade potrebbe ad esempio non aver nulla a che fare col riscuotere la taglia; la vedova Lane (Karen Steele) passa il film a fare l'oca bionda, ma abbiamo ben visto la sua entrata in scena - Winchester alla mano e pronta a usarlo...

Il mistero in L'albero della vendetta non giace però nel gioco dialogico; anzi, al netto di quella "certa teatralità" spesso rilevata dalla critica, non c'è niente di strano nei personaggi di Boetticher per come parlano. In questo sono davvero classici eroi da B-movie. È invece la loro collocazione, nello spazio e nel gioco di luci e ombre, a parlare. Il primo lo scopriamo - minuscolo all'orizzonte - solo quando cessano i titoli di testa, vi stava nascosto dietro. Poi la camera in sinuoso piano-sequenza slitta di lato fino a inquadrare l'assassino (James Best). Come il primo uomo era sempre stato là, ma noi non lo sapevamo. Ogni singolo personaggio sarà introdotto in questo modo, in un gioco presto snervante di ingressi laterali, spesso dall'ombra, dallo sfondo dove cavalcava non visto, da dietro la schiena di uno dei protagonisti (come gli indiani di una sequenza magistrale). Il gigantismo del Cinemascope perde ogni connotato di onniscienza, di visione libera ed ariosa: sempre più cosci di una costitutiva incapacità di vedere l'Altro che pure sappiamo esserci, in tutta quest'immensità di sguardo cominciamo a sentirci soli.

Ride Lonesome è infatti il titolo originale, e ancor meglio lo giustifica il nome parlante del protagonista. Ben Brigade, Brigade cioè brigata, un gruppo che è in realtà una sola persona. Nulla ci viene incontro sul deserto di rocce o nelle praterie, e sì che qualcuno c'è - ci sfiora di continuo, in modi sempre più subliminali: a un certo punto Brigade e Mrs Lane avanzano verso un capo indiano che vuole la signora in cambio di un cavallo. "Non sono impressionabile" risponde piccata quando lui le bisbiglia di non dare in isterismi. Davanti al capo però lei urla, e quando Brigade la rimprovera dice gelandolo "quello era il cavallo di mio marito". Ancora una volta eravamo in presenza di una persona che non potevamo vedere. E se fare di un cavallo un fantasma sembra una finezza, che dire del dare un'anima a un fucile? In una scena che anticipa quella delle pallottole in Dirty Harry ("do you feel lucky?..") qualcuno sostiene di viaggiare sempre col fucile scarico e qualcun altro, che quel fucile imbraccia, deve decidere se sta bluffando. Se conoscesse la persona, conoscerebbe l'arma. Ma si cavalca soli...

Una certa somiglianza lega pure L'albero della vendetta ai western girati pochi anni dopo da Sergio Leone. C'è uno stallo con sguardi in cagnesco molto leoniano, ci sono i campi lunghissimi col rider che avanza al piccolo trotto. La somiglianza è però superficiale: se in Leone conta il desiderio, di caso in caso più ludico o più meditativo, di dilatare a dismisura la retorica del genere, in Boetticher il pistolero è così lontano in un'ennesima crudele sottrazione dell'Altro al nostro sguardo, e il paesaggio - in un cinema che mantiene molti legami con la tradizione classica del genere – è personaggio, ma un personaggio inquietante, che oltre l'epidermide radiosa e baciata dal sole rapisce le figure umane in un manto buio di insondabile ambiguità. È infatti solo di notte, magica e spaventosa come quella di La morte corre sul fiume, che si discute di etica e senso dell'onore, che ci si indigna per un ipotizzato tradimento, che si può ancora essere eroi western. Al buio, di nascosto. In un bosco oscuro e bestiale che ribalta il concetto western di wilderness. I tempi cambiano.